Regia di Riccardo Sesani vedi scheda film
In un tribunale romano percorso ad ampie falcate da azzeccagarbugli ampollosi, che agitano la testa come se indossassero la parrucca riccioluta e citano Nietzsche come Saint-Exupéry, si consuma il dramma di June Mancinelli: giovane donna di origini orientali, denuncia per stupro il rampollo di una influente famiglia di produttori cinematografici. La difesa è affidata a un virtuoso del foro, che anni prima aveva fatto rilasciare i colpevoli di un brutale omicidio. La vittima era la moglie di un pm, lo stesso cui si rivolge June per portare avanti la sua coraggiosa battaglia: vincendo la causa, l’uomo potrebbe finalmente trovare conforto in una giustizia non solo proclamata. Purtroppo alla parata delle parole - ridondanti, scandite con teatralità fuori luogo da personaggi caricaturali - non corrisponde una coscienza della messa in scena: l’aula-proscenio si tinge di didascalico b/n per annunciare l’irruzione di flashback, un indiscreto pianoforte scandisce la ricostruzione della violenza. Che, come sottolinea con disarmante sicurezza un perito, sarebbe dovuta «a un’alterazione del metabolismo». Si susseguono risibili siparietti imbastiti da attori troppo volenterosi (un presunto colpevole dal piglio soapoperistico, una procace giornalista d’assalto) o da interpreti imbrigliati in una sceneggiatura involontariamente grottesca (la Ichikawa si produce nel monologo di Giulietta al balcone, Di Stefano ritrovando un’agognata prova afferma che «l’essenziale è invisibile agli occhi»). E l’imbarazzo della vittima diventa sentimento mestamente condivisibile.
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