Regia di Nattawut Poonpiriya vedi scheda film
Il piano è il tredicesimo. O meglio – scusate - è il dodicesimo-A. È in posti come quello, si sa, che accadono le cose peggiori. Il cinema ce lo ha insegnato da un pezzo, e ci siamo ormai abituati all’idea, ma non è mai troppo tardi per scoprire che non tutto è poi così scontato, e che c’è ancora spazio per lo stupore. L’esordio del regista e sceneggiatore Nattawut Poonpiriya ci offre un ottimo spunto per affrontare la questione, e per scoprire che la paura più intensa ed autentica non nasce dall’orrore, che la soffoca in un mare di sangue e frammenti organici. È, invece, figlia del nonsense: quello che ci viene a trovare di notte, sotto forma di incubo, per sconvolgere la ragione e dare origine ad un’assurda ossessione. Nel buio la follia incontra la lucidità, per inventarsi una realtà del tutto alternativa, inverosimile, eppure così radicata nella nostra coscienza, da risultare perfettamente credibile. Jack, Pam e Bee, tre giovani thailandesi che dividono un appartamento newyorchese, vivono questa esperienza alla vigilia di Capodanno. Mentre, a breve distanza, la folla è radunata a Times Square in attesa del famoso conto alla rovescia, uno sconosciuto capita in casa loro: è uno spacciatore che essi stessi hanno chiamato, ed è venuto a vendere un po’ d’erba. Quella che inizia come una serata allegra e trasgressiva si trasforma ben presto in qualcosa di molto diverso. La situazione degenera con una gradualità che è al contempo naturale, inesorabile ed allucinata. Al colpo di scena si sostituisce la scintilla innescata da un’evoluzione improntata alla creatività, in cui l’invenzione estemporanea è inattesa, originale, ma si inserisce perfettamente nella cornice logica di un discorso che si va via via dispiegando in tutta la sua complessità. L’euforia indotta dagli stupefacenti è il motore di una sorta di regressione ipnotica, che porta in superficie le fobie, le manie, i segreti inconfessabili. Il processo psicanalitico, accompagnato dai simboli più tipici (le icone religiose, gli scarafaggi, le visioni della fine del mondo) si compie attraverso un’estasi al contrario, nella quale ci si stacca dalla superficie della concretezza per sprofondare nelle viscere della terra, dove la trascendenza è una dimensione totalmente infernale. Jesus è il nome di un demone occidentale giunto in mezzo ai quei ragazzi asiatici a portare verità e castigo, con la voce di una furia che parla due lingue, lo slang anglofono dei bassifondi e il thai rituale delle formule buddhiste. Il tessuto della tensione non si lascia sfaldare da questa dicotomia, che, dal punto di vista cinematografico, realizza un’armonica fusione tra la volgare violenza degli sbandati metropolitani e il raffinato sadismo orientale, che odora sempre di magia. L’apocalisse si compie, ai giorni nostri, in un quartierino della Grande Mela: un piccolo cataclisma in scatola, che rispetta in pieno il carattere strettamente privato delle moderne rivoluzioni spirituali.
Countdown ha concorso, come candidato thailandese, al premio Oscar 2014 per il miglior film straniero.
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