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L'intrepido

Regia di Gianni Amelio vedi scheda film

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La recensione su L'intrepido

di FilmTv Rivista
8 stelle

«Assurdo», gli dice Lucia. Assurdo che Antonio, 48 anni, di lavoro faccia il “rimpiazzo”. Un mestiere terminale, nemmeno troppo immaginario, di un sistema che per essere stabile cerca il precario, l’occasionale. Così, che sia per un giorno, o anche solo per un’ora, Antonio sostituisce coloro che ne hanno bisogno. Ed è felice. Fa l’attacchino e lo stiratore, il muratore e il fattorino, gonfia palloncini per decorare il Primo Maggio di gioia, guida i tram per le vie di Milano. Fa tutto questo. E lo sa fare, con l’umiltà di chi può persino scendere in strada, a vendere rose. La moglie l’ha abbandonato, per un benestante, e intorno a lui, legate, ci sono le figure dei figli: Ivo, figlio biologico, e Lucia, figlia simbolica di cui s’innamora, e che ama d’amore paterno. Una generazione debole, illusa e delusa, debilitata. Se non prostituita. Lui suona il sassofono, ha studiato per farlo, vive di quel che gli piace, ma la notte è comunque attanagliato dal panico: sa che il futuro è instabile, e quando mostra ambizioni non lo accettano, lo chiamano «inaffidabile». Lei è bloccata, soffocata dalla depressione, persa nella stasi di chi si nega ai propri privilegi ereditati, ma non vede comunque strade in cui possa camminare da sola. Parla di questo, di loro, L’intrepido: di due generazioni e del capitale, di genitori capaci di reinventarsi (con onestà o con meschinità) e di figli feriti, chiamati «choosy» dal sistema che li ha educati a sognare, «ingrati» da chi li vede arrancare fuori del nepotismo. Amelio, con il suo realismo sghembo che inventa un angelo in tempo di crisi, chiama Antonio Albanese a girare con Chaplin negli occhi, omaggiando, aggiornando e degradando vagabondi e tempi moderni nell’oggi: ne esce un film libero, composto da quadri di melodramma sociale e gag malinconiche che non fanno sorridere, didascalico perché candido, elementare, buonista perché in cerca di un altro Miracolo a Milano. E così, con le sue licenze sognanti, con le sue fantasie, accompagna il reale verso una risoluzione simbolica: il padre sa usare il proprio talento anche negli affetti, sa farne una questione sentimentale, di cuore. Non fa una sostituzione, assume una responsabilità. E il sax può continuare, anche se triste, a suonare.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 37 del 2013

Autore: Giulio Sangiorgio

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