Regia di Gianni Amelio vedi scheda film
L'intorpidito.
Un torpore autunnale, involontario, sembra a tratti animare - o forse inseguire - Antonio Pane, buono per indole e disposto a tutto per necessità (di sopravvivenza). Nonostante gli sforzi, l’instancabile affaccendarsi, la disinvolta attitudine a saper svolgere ed apprezzare tutti i lavori - lui che di professione fa il “rimpiazzo” -, e l’animo gentile: il suo essere (volutamente) “alieno”, un fumetto in carne ossa e sentimenti, non riesce (o non basta) a celare né a colmare un evidente ristagno emotivo, del quale la quanto mai precaria condizione occupazionale è simbolo e sintomo prima che causa.
Allo stesso modo, ed anzi ancor di più, una certa inerzia realizzativa avvolge l’opera di Gianni Amelio (pur partito da valide premesse ed intenzioni). Funziona - e molto meglio di tanti film a tema (lavori impegnati o commediucole dal passo greve o docufiction che siano) - come spaccato crudo e concreto della realtà contemporanea la cui crisi non è soltanto economica e lavorativa.
Alla verosimiglianza delle varie vicende più o meno assurde che accompagnano l’intrepido del titolo (il concorso, il losco individuo che gli procura il mestiere del giorno, gli operai stranieri, gli scioperi, le disparate e disperate furberie di strada) - immerso in una Milano ben fotografata nel suo essere/divenire stato della mente plumbea e spoglia(ta) - non corrisponde però una profondità e compattezza del racconto: il susseguirsi delle scene è frammentario e meno incisivo di quanto si vorrebbe, talvolta si fa balbettante altre volte confusionario ed altre ancora poco lucido; e ciò anche in virtù della programmatica, insistita costruzione del protagonista.
Una figura tragicomica (i)po(t)eticamente suggestiva in un universo spensieratamente in disfacimento; ma qualcosa, nel passaggio da strumento della storia (potente nel suo addentrarsi nelle buie grotte dello smarrimento) a soggetto dotato di luce e vita propria, non gira a dovere, come se Pane fosse l’autista di un tram “sbagliato”: le rotte un po’ coincidono, si disperdono, si incrociano magari casualmente, si allontanano definitivamente. Sensazione palese data anche dalla incompleta composizione degli altri personaggi (il riferimento è d’obbligo per il figlio ed in particolare per la giovane Lucia interpretata con intensità dall'interessante Livia Rossi): la loro presenza, il loro irrompere interagire deviare nelle vie “orizzontali” del buon Antonio, finiscono così col possedere altalenante e interrotta rilevanza all’interno delle trame oblique del ritratto generale.
Oltretutto, a certificare una mancanza di omogeneità, l’entità della tanto dichiarata natura surreale, leggera, della pellicola, ha contorni stridenti, indistinti, e spesso monotoni. Gli effetti non sono quelli evidentemente sperati; e l’equilibrio tra le due componenti risulta in sostanza instabile, compr(om)esso (il dramedy è un sentiero impervio per la nostra cinematografia attuale, anche per un autore apprezzato quale è Amelio).
Soffocate (in parte) le potenzialità di un ottimo spunto di partenza, subita la “necessarietà” a tutto campo di Antonio Pane (e Albanese: paradossalmente, è talmente bravo e impegnato da sembrare finto, troppo costruito) che si tramuta in presenza fagocitante e oscurante, percorsi con passività (dovuta, chissà, alla troppa sicurezza o alla fretta) alcuni passi dello sviluppo narrativo, L’intrepido appare un progetto disegnato da mani sì preparate ma in una fase di stanca e non particolarmente ispirata, non in quelle che sono le linee complessive dell’idea generale.
Il (non) finale, innescato da una (lunghissima) suite jazz con annessa sorpresina “enigmatica”, e concluso con uno stacco su Albanese che, inquadrato di spalle, si gira a sbattere il suo faccione in camera, è una soluzione posticcia che lascia, ancora, perplessi.
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