Regia di Gianni Amelio vedi scheda film
Il cambiamento è caratterizzato da sentimenti contrastanti. All'incertezza del nuovo si accompagna quasi sempre il senso di liberazione da una condizione che ha smesso di rappresentarci. Questa dimensione credo che appartenga da qualche tempo a Gianni Amelio tornato al cinema con due film piuttosto complicati: "Il primo uomo", cineracconto ricavato dall'omonimo romanzo di Albert Camus, condizionato dall'improvvisa mancanza di finanziamenti e dal conseguente abbandono dell'attore protagonista, ed oggi, dopo la direzione del TFF, "L'intrepido", debutto nella commedia del regista calabrese, subito confortato dall'entusiasmo dei selezionatori del festival di Venezia che lo hanno appena presentato nel concorso ufficiale della '70 edizione. Certamente la storia di Antonio Pane e dei suoi mille mestieri costituiva una bella scommessa. Intanto perchè Amelio era chiamato a misurarsi con la fisicità sghemba e l'umorismo surreale di un anfitrione dell'arte comica, e poi perchè si trattava di ritornare ad affondare i denti nelle piaghe di un paese in crisi, dopo anni in cui Amelio aveva guardato all'Italia attraverso le vicende di altre nazioni: L'Albania degli immigrati post rivoluzionari cosi come la Cina dello sviluppo industriale, e persino l'Algeria martoriata dal terrorismo indipendentista garantivano la giusta distanza per ritrovare il senso di ciò che avevamo perduto, o più semplicemente di quello che non riuscivamo più a vedere. Per farlo Amelio sceglie di raccontare una storia in controluce, in cui la mancanza di misericordia e di comprensione umana emerge dall'estraneità del protagonista rispetto al mondo che lo circonda. Antonio Pane è infatti lo straniero per eccellenza: abbandonato dalla moglie, con un figlio al quale è costretto saltuariamente a chiedere i soldi e per di più senza un posto fisso, Antonio non si perde d'animo moltiplicando sforzi e gentilezze distribuite a piene mani a buoni e cattivi, senza classifiche di merito. Ma soprattutto non smette mai di lavorare, adattandosi ad ogni incarico e mansione sempre sull'onda del buon umore, e con sguardo attento a chi come Lucia (l'esordiente Livia Rossi), fatica ad andare avanti. Affidandosi al talento di Albanese ed ambientando la storia in una Milano più vicina ad uno stato dell'anima che ad un luogo geografico (la città pur riconoscibile è resa con una toponomastica priva di punti forti) Amelio sospende il film in un' indeterminatezza di toni che alternano momenti di rara drammaticità - soprattutto quelli in cui Antonio si confronta con le generazioni più giovani e che costituiscono la parte migliore del lungometraggio - ad altri in cui a prevalere è la buffezza del personaggio ripreso in situazioni surreali come quella del passaggio di consegne con un gigantesco ferroviere in cui la precarietà di quel lavoro risalta dalla differenze fisiologiche (i due sono ritratti di profilo, uno di fronte all'altro per evidenziare le rispettive figure ) e da particolari secondari come quello dall'uniforme extra large che Antonio indossa con la disinvoltura di chi non potrebbe avere abito migliore. A prevalere in generale è il contrasto tra la dimensione tragicomica dell'immaginario che Albanese porta con se e la disfunzionalità di paesaggio popolato di uomini e donne chiuse all'interno del proprio dolore o della propria grettezza. Uno schema che pure funziona quando si tratta di introdurre i personaggi ed il loro mondo, ma che risulta inadeguato nel momento in cui, e siamo circa a metà del guado, si tratta di raccontare qualcosa di più, entrando all'interno di di situazioni appena sfiorate e d rapporti umani accennati in superficie. E' in quel preciso frangente che "L'intrepido" non riesce a cambiare marcia, restando sempre sull'apparenza delle cose e degli uomini per poi naufragare in un finale davvero imbarazzante per la vaghezza che Amelio sceglie per chiudere il cerchio con le sventure che nel frattempo si erano accumulate nel corso della vicenda. Commedia sotto mentite spoglie "L'intrepido" ripropone temi cari al suo autore (il rapporto padre figlio e la dialettica generazionale, il viaggio come strumento di conoscenza e di catarsi, l'umanesimo degli umiliati ed offesi) e pure non manca di ribadire uno sguardo interessato ai problemi del reale che Amelio ritrae anche con cinica crudezza (la filosofia del venditore di protesi fa il paio con quella del personaggio di Michele Placido ne "L'america") ma a differenza di altre volte a mancare è quella densità emotiva ed appassionata a cui aveva abituato e che permetteva di vivere in prima persona le esistenze di cui ci parlava. Il lavoro di sottrazione operato da Amelio avrebbe avuto bisogno di una sostanza che la performance del pur bravo Albanese non riesce a compensare, ed anche i riferimenti alla disoccupazione ed al precariato pur presenti sono affrontati con una prospettiva da titoli di giornale, come accade nella sequenza d'apertura con le contumelie dell'operaio nei confronti degli extracomunitari simili ad un abbecedario del giovane razzista. Diventa allora inevitabile sottolineare la mancanza d'identità di un opera che conferma il momento di scarsa vena dell'autore calabrese. (icinemaniaci.blogspot.com)
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