Regia di Shane Salerno vedi scheda film
La visione di Salinger – Il mistero del giovane Holden lascia quanto mai perplessi. Più di un problema (etico, estetico, contenutistico) sorge, già a partire dall’idea che si proponga un film su un autore che, dal canto suo, non ha voluto, nell’ultima parte della sua vita, farsi vedere o sentire in alcun modo. Simile invadenza di natura spiccatamente giornalistica a chi è rivolta? A chi non ha letto niente di Salinger? In quel caso il film da un lato procede con una pubblicità dettagliata di tutte le sue opere, scandagliate dal film con il brio che poteva avere Wiede nel suo Woody; dall’altro lato invece il film si ripiega in un certo spassionato compiacimento nei confronti degli eventi biografici del mitico Salinger, tanto da dare fin troppo per scontate la sua importanza e le sue opere. Chi era, e perché era così importante J.D. Salinger? Vogliamo far veramente credere che sia importante solo per questa sua decisa clausura? E perché questa non ha fatto altro che gonfiare la fama del suo mitico Catcher in the Rye? Per di più in questo punto è messo in dubbio anche il fine ultimo del documentario, che in quanto pragmatico e attento ai fatti non dovrebbe poter lasciare trapelare troppe ambiguità, nel suo presentarsi allo spettatore: è davvero un film oggettivo? O mira a celebrare il suo autore? Nel secondo caso, davvero qui si sfiora l’ossessione, con l’attenzione al minimo particolare della vita privata dell’autore, tanto che si sfiora a tratti il buon gusto e si penetra nel voyeurismo (le vicende con una sua amica e con la sua verginità potevano essere evitate). E oltretutto in che misura si può celebrare Salinger mantenendo una certa freddezza nei confronti della figlia, che sembra campare sulla fama del padre vantandosi di non avere, con lui, un qualunque tipo di rapporto, e nei confronti di Joyce Maynard, responsabile della vendita all’asta delle personalissime lettere d’amore che Salinger le scrisse? Nel primo caso, invece, l’oggettività sarebbe davvero messa in difficoltà dall’evidente entusiasmo (sensazionalistico) di fronte alla possibilità, indicata da una serie di scritte sullo schermo, sulla ventura pubblicazione di altre sue opere, scritte durante la clausura. Davvero il genere documentario è in grado di mettere insieme atto celebrativo e ostentata oggettività?
Mentre permane il dubbio se si tratti o di una campagna pubblicitaria di due ore del libro di Shane Salerno (autore del libro ma anche regista di questo film), o di un reportage scandalistico sulla vita privata di uno degli uomini più misteriosi del mondo, è tuttavia evidente che il film spesso non lascia scampo e spinge a provare una curiosità (stavolta accettabile, non [troppo] morbosa) nei riguardi delle influenze che la guerra e alcuni (alcuni!) momenti della sua vita privata possono avere avuto nella produzione di uno dei romanzi più belli ed emozionanti di tutti i tempi. Intanto che il film passa in rassegna le vicende della sua vita e i vari racconti, partecipiamo alle dichiarazioni di un numero spropositato di persone più o meno vicine a Salinger e alle sue esperienze. Se la visione di Philip Seymour Hoffmann, in questo senso, commuove, la visione di Edward Norton è troppo breve per interessare e quella di Danny DeVito, promessa dal trailer, non c’è affatto. Tutte le dichiarazioni, comunque, rendono il quadro del documentario davvero frammentario, fin troppo divagante, a tratti pedante nella messa in scena di tutte le informazioni che si hanno sulla vita di un uomo molto particolare, evidente misantropo, incapace di intessere normali rapporti sociali perché fin troppo legato alla sua scrittura e alla dimensione terapeutica che probabilmente essa gli procurava (con tutti i necessari effetti collaterali). E così ci si rende conto che, se il film è più interessato al personaggio Salinger che all’autore Salinger, magari è diretto a chi ha già letto tutto dell’autore, e non a chi non l’ha letto. In questo caso le possibilità sono svariate, ma essenzialmente il film non lancia né ammiccamenti bibliofili ad eventuali esperti né si lancia in analisi più interessanti sulle opere: l’interesse è per la vita di questo autore, e per tutte le sue infinite contraddizioni che, presenti in ciascuno di noi, in un uomo reso tanto famoso dall’arte finiscono per assumere dimensioni gigantesche, quasi apocalittiche. Così, in questa incapacità di assumere una direzione ben precisa, richiesta necessariamente da qualunque documentario (che non siano sperimentazioni alla Herzog o alla Pasolini), Salinger finisce per lasciare freddi, consegnare tante informazioni per accumulazione e non lasciare nulla, né più né meno della curiosità che si poteva avere precedentemente nei riguardi della lettura delle sue opere. Nessun tipo di chiave di lettura, nessun tipo di carezzevole ipotesi: il film salva la sua pellaccia soltanto per piccole curiosità legate alla volontà spasmodica da parte di J.D. Salinger di non trasformare Catcher in the Rye in un film (il tentativo l’avevano fatto Billy Wilder ed Elia Kazan) e per l’interessantissima parte in cui si racconta che la responsabilità di tre attentati negli US negli Anni Ottanta è stata imputata, dagli stessi attentatori, al Giovane Holden, il che rivela le infinite implicazioni che può avere l’Arte sulla mente umana, e su come un romanzo tanto doloroso come questo possa davvero catturare le corde più profonde dell’animo di un lettore. Poi però ci si sofferma tanto sull’origine dei personaggi salingeriani di Esmè e Franny, ma non si dice nulla della mitica piccola Phoebe, “vecchia mia”, come se i tanti che nel film celebrano il romanzo parlando di empatia se ne siano completamente scordati. Oltre al fatto che Catcher in the Rye è ben più complesso di così: tanto è problematico il protagonista che non viene certo voglia di vantarsi di finire per identificarsi in lui. Anzi, il senso che si prova nel leggere le parole di Holden è straniante e fastidioso, come se ci si ritrovasse in una mente inospitale e capricciosa, seppur sincera e davvero vivace. L’idea dunque è che Shane Salerno con tutti gli amici di Salinger non abbiano capito granché Catcher in the Rye: il fatto che tanti si vantino di identificarsi con un ragazzino tanto ribelle quanto pieno di difetti e di rancori, un personaggio che scova la dimensione più nascosta e pericolosa dell’uomo che legge, mettendolo davvero in imbarazzo di fronte alla sua essenza, allora ben si capisce perché Salinger abbia deciso di chiudere bottega. Era davvero circondato da pazzi: l’unico sano, più che lui, era Holden Caufield.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta