Regia di Lucas Belvaux vedi scheda film
E' un film da vedere perché narra una storia amorosa evitando accuratamente le trappole sentimentali e il lieto fine che troppo spesso avvelenano questo genere di film. Un film degno, sincero, tutto da godere. Inoltre, e non è poco, non c'è la volgarità che ormai sembra permeare un pò tutto.
Non so se vi sarà capitato si alzarvi una mattina con un pensiero ricorrente, insistente, qualcosa che, alla lunga, vi sfianca e vi induce a prestare un po' d’attenzione. Ovviamente la risposta è sì, però, quasi sempre si tratta di un motivo musicale, un po' meno spesso un libro o un film. Un film, appunto. A me succede spesso. Ultimamente continua a ricorrere nei miei pensieri un film francese che ho visto qualche ano fa e che mi era piaciuto; parlo di SARA’ IL MIO TIPO? uscito giusto dieci anni fa (2014) e diretto da Lucas Belvaux, belga di Namur, attore e sceneggiatore oltre che, ovviamente, regista.
Belvaux non è un regista conosciutissimo in Italia, così come Loic Corbéry (della Comédie Française). E lo stesso si potrebbe dire per la co-protagonista Emilie Dequenne (anch’ella belga). Ma, si sa, in Italia al gran pubblico non piace molto il cinema francese. Ho già trattato in passato questo fenomeno, per me assolutamente discutibile.
Al gran pubblico non piace il cinema francese forse perché non sopporta quell’aria di pretesa superiorità rispetto a noi “ritals” o “macaroni”, o quel loro sentimento di “grandeur” che fa imbestialire non solo noi italiani. Infine, le esperienze personali di tanti connazionali a Parigi, trattati con sussiego e fastidio. Ma tutto questo è più folklore che altro.
Se ci limitiamo, come dovrebbe essere ovvio, all‘aspetto critico, scevro da ideologie, manie, antipatie più o meno fondate, ci troviamo qui di fronte a un prodotto degno, gradevole e abbastanza profondo.
Non intendo qui parlare di Belvaux, per quanto un discorsetto a parte varrebbe la pena farlo; mi interessa parlare del film e di tutta una serie di aspetti collaterali che ne arricchiscono lo spessore qualitativo.
Una storia semplice, certo. Un professore di filosofia che abita ed insegna a Parigi è costretto a trasferirsi per un anno a Arras, a un’ora e mezza dalla capitale (non solo in Italia capitano queste cose). Lo fa malvolentieri (Paris est Paris…), ma solo per i primi tre giorni della settimana. Il mercoledì pomeriggio può già tornare a casa. Poi conosce una parrucchiera che si innamora di lui. Instaurano una relazione amorosa chiaramente sbilanciata. Come in relazioni precedenti (a quanto ci suggerisce l’inizio del film) più che amare lui si lascia amare e questo distrugge ogni amore. Finisce male e forse, forse capisce di avere gettato al vento quello che poteva diventare un rapporto vero, autentico, bilanciato.
Clément, in effetti, conosce la letteratura, la filosofia, ma le sue conoscenze, la sua cultura non sono che contenitori pieni di dotte citazioni, concetti profondi incamerati nel corso dei suoi studi, cataloghi sterili di cose lette, studiate, ma mai, forse, sentite, provate. Incapace di vivere e comprendere intimamente ciò che legge, non è che un mediatore culturale meccanico, senza slanci, sussulti, senza di cui tutto resta esterno, ben imparato, ben divulgato. Clément resta e resterà un infelice perché incapace di amare, buono a sedurre con frasi ad effetto, ammaliare con la sua aria di giovane professore le donne che non cercano avventure ma relazioni stabili e che si illudono di aver trovato in lui l’uomo che finalmente le saprà comprendere, coccolare e amare.
Jennifer, invece, è l’esatto opposto di Clément. Senza citazioni né retaggi culturali da propinare alla prima occasione, vive la propria vita con ottimismo, malgrado le bastonate che la vita le ha riservato. E’ una donna solare, piena di voglia di vivere e quando ama dà tutta sé stessa. Ciò che la distrugge è l’indifferenza che vede in Clément. A questo proposito, il grande Gilbert Bécaud cantava:” Ce qui détruit le monde c’est l’indifférence (…) elle te tue à petit coup, un peu de haine un peu d’amour mais quelque chose ». Solo qualche cosa, appunto. Ma Jennifer non può accontentarsi di qualche cosa, di un pò di odio o un pò d’amore, motori di ogni rapporto profondo.
C’è una scena, a mio avviso straordinaria, che riassume in un minuto la loro storia. Clément sta leggendo un passo tratto da Marcel Proust. Egli legge, lei sembra ascoltare con interesse. D’improvviso, si ode qualcuno che, nell’appartamento accanto, accenna ai primi versi del celebre canto ufficiale della Legione Straniera (Tiens, voilà du boudin!). Jennifer, si unisce al canto e, dimostrando lo scarso interesse per ciò che Clément sta leggendo, intona i primi versi e, alla fine, scoppia in un riso tanto irrefrenabile quanto liberatorio. Questa è Jennifer e Clément non ha capito nulla.
Clément non crede nella coppia, preferisce rapporti col sesso femminile senza complicazioni sentimentali. Non gli interessa innamorarsi, anzi, utilizza i propri strumenti culturali per convincersi che la coppia non ha più senso, senza rendersi conto di uccidere poco a poco (“Tuer coup à coup”) un barlume sentimentale che sta nascendo in lui. Jennifer non può continuare un rapporto così sbilanciato e, con la morte nell’anima, decide di rompere con Clément e allontanarsi da casa per andare a vivere in un’altra città, evitando accuratamente di svelare dove andrà a vivere. Un finale triste ma dannatamente vero, credibile e penoso.
E’ un cinema, questo di Belvaux che lo avvicina un po' a Rohmer (la presenza della letteratura) e un po' a Pialat (l’impossibilità dell’amore), ma soprattutto a sè stesso: non c’è l’insistenza rohmeriana nel valore della parola né la crudeltà dei rapporti, tanto cara a Pialat.
Confesso di amare questo tipo di cinema, senza troppi compiacimenti culturali (che a volte risultano essere una vera e propria zavorra) arricchito da una superba interpretazione di Emilie Dequenne, capace di mettere a nudo la propria semplicità e la sterilità sentimentale di Clément (Loic Corbery). Un film da non perdere. Assolutamente.
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