Regia di Gavin O'Connor vedi scheda film
Può un film western iniziare con una mamma che gioca e scherza con la sua bambina mentre sono a letto, di notte, sotto le coperte? Secondo Gavin O’Connor sì. Così inizia Jane Got a Gun, nuovo tassello di un certo female western (o She-Western?) che in questo nuovo secolo sta conquistando sempre più spazio all’interno di una produzione, quella appunto western, solitamente dedicata a soli uomini. Pensiamo al remake dei Coen, True Grit (2010), ma anche e soprattutto a The Homesman (2014), a The Keeping Room (2014) e perché no?, anche alla commedia cattivista di Seth McFarlane, Un milione di modi per morire nel West (2014), dove Charlize Theron è protagonista tanto quanto lo stesso regista-attore, o pensiamo anche alle due Bandidas (2006) Salma Hayeck e Penélope Cruz. Per non dimenticare le antesignane Barbara Stanwyck in Le furie (1950) e Marlene Dietrich in Rancho Notorius (1952), e le antieroine anni ’70 come e soprattutto Candice Bergen in Stringi i denti e vai! (1975) che dà filo da torcere a James Coburn e a Gene Hackman, vendicandosi così del trattamento riservatole ne Il giorno dei lunghi fucili (1971), senza dimenticarla icona progressista in Soldato blu (1970).
Una vero e strutturale ripensamento del ruolo femminile nel genere western avviene però solo durante gli anni ’90 grazie a titoli come Bad Girls (1994), Pronti a morire (1995) e lo pseudo-western di Gus Van Sant Even Cowgirls Get the Blues (1993). Così, sulla scia del successo iconico di Thelma & Louise (1991), si sdogana per sempre la figura della donna avventuriera, adatta al western come all’on the road, suo ideale proseguimento, all’action movie come al bellico (Soldato Jane, 1997).
Stesso discorso per Natalie Portman, novella pistolera, donna coraggiosa e determinata, che impugna la pistola per difendere il marito, criminale di frontiera, dall’assedio di alcuni delinquenti con cui aveva lavorato, tra cui Ewan McGregor. Non colpisce soltanto il carattere che la Portman sa dare al suo personaggio, giocando proprio su una certa fragilità che l’ha resa famosa e conturbante, ribaltandola a favore di un ruolo e di un genere completamenti nuovi e per di più voluti dalla stessa attrice, qui anche produttrice.; ma colpisce anche lo sguardo registico che gioca molto sulle atmosfere e i moduli narrativi. Da un lato una natura arida e monumentale, che funziona da teatro espressionista per la messa in scena del dramma western per definizione: l’assedio. Dall’altro esterni evocativi e terrigni, dove ranch e villaggi hanno l’architettura del non luogo, trascendendo l’ambiente a favore del simbolo.
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