Regia di Lina Wertmüller vedi scheda film
Rita studia in un college e ha due passioni particolari: cantare e scrivere un irriverente giornalino scolastico. La prima è condivisa, sia pure di nascosto, dal professor Randi, che tanto piace a Rita.
Questa è la seconda pellicola che vede Rita Pavone come protagonista, a pochi mesi di distanza da Rita, la figlia americana (1965) di Piero Vivarelli; la cantante aveva già ottenuto un ottimo successo sul piccolo schermo con Il giornalino di Gian Burrasca (1964) e sarebbe stata impegnata in altri tre filmetti musicali negli anni immediatamente successivi, per poi gradualmente scomparire dal grande schermo. Neanche a dirlo, tutti i musicarelli si somigliano paurosamente fra loro: il personaggio al centro della storia – una ragazzina un po’ discola, ma innamorata, e naturalmente dotata di prodigiose corde vocali – supera ogni difficoltà per trovare soddisfazione nei due campi che maggiormente la coinvolgono: la musica e l’amore. Fra una scena e l’altra ovviamente non si perde tempo e la Pavone si esibisce in qualche playback posticcio destinato a promuovere presso il grande pubblico le sue ultime canzoni. Al di là dei suoi pezzi qui la cantante/attrice è chiamata a rifare anche il verso a Marilyn in un breve sketch in cui canta I want to be loved by you vestita da diva: evitabile, per quanto si tratti di una scena ironica (come la scena della samba; già meglio la gag di Chaplin); Rita Pavone è però totalmente a suo agio nel suo classico ruolo della teppistella, affiancata peraltro sul set da uno stuolo di attori degno di sottolineatura: Giancarlo Giannini, giovanissimo anch’egli, è il coprotagonista, ma troviamo anche Peppino De Filippo, Nino Taranto, Turi Ferro, Milena Vukotic, Bice Valori, Paolo Panelli, Ugo Fangareggi, Gino Bramieri e Teddy Reno, compagno e futuro marito della protagonista. Per quanto riguarda il regista George Brown, si tratta – è cosa nota – in realtà di Lina Wertmuller, la cui carriera era già decollata con un debutto autoriale (I basilischi, 1963) a cui avevano fatto seguito una modesta commedia (Questa volta parliamo di uomini, 1965) e il già citato Gian Burrasca televisivo: ripararsi dietro a uno pseudonimo pare pertanto giustificabile, anche se il nome della Wertmuller compare alla voce sceneggiatura dei titoli di coda (da un soggetto di Sergio Bonotti). 3/10.
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