Regia di Terrence Malick vedi scheda film
«Vivere … di canzone in canzone».
Tra gli afflati di pensiero (rigorosamente in voice over: così paiono anche quando fuoriescono dal “vivo”) del profluvio – antinarrativo, natur(al)istico, trascendente – che l'organismo vivente/mdp cattura ed emana, riflette e traduce, come forza armonica che cerca di afferrare forze armoniosamente inafferrabili: Song to Song è pura emanazione malickiana, puro moto (meta)fisico di onde e frequenze e vibrazioni che certificano l'essenza delle cose tutte.
La melodia della vita non può essere una canzone dalla semplice forma-canzone (eppure ce ne sono tante, dai Die Antwoord a Patti Smith a Reed Turner: ma sono momenti, frammenti, come frammentaria e interrotta è l'esistenza) né un-accordo-uno ripetuto in un loop sul quale innestare liriche illuminate: risiede nel suo caotico insieme, nel sottofondo musicale che si sublima in sostanziale presenza, ricorrente e necessaria (Debussy, Arvo Part).
Nella ricerca – continua e salvifica – di quello che c'è (e non c'è) tra una song e l'altra. Ovvero tra un evento “saliente” – di quelli che ci formano e segnano – e l'altro.
Una ricerca che è il fondamento stesso della poetica malickiana (dal suo “ritorno” in poi; sì, compresa La sottile linea rossa): se la “sceneggiatura” è una jam session in perenne, curioso e furioso divenire, e la fotografia (Emmanuel Lubezki: chi altri?) un compendio straordinario di movimenti fluidi, inquadrature sghembe e riprese turbinose che immergono nel (non) racconto e impressionano per un'aura potentissima di misticismo e sensualità, è il montaggio a governare – a posteriori, a ricerca conclusa – e decidere sorti, catalizzare senso e letture, ritagliare sequenze e momenti (anche trasfigurando la facciata del rigoroso ordine cronologico) e dirigere i destini dei personaggi.
Che rappresentano, in quest'ultima, controversa opera dell'autore del seminale The Tree of Life, una fulgida sonata – intima, intensa, neoclassica, romantica, universale – per stereotipi e archetipi: il diavolo-lupo Cook (Fassbender, mefistofelico e splendidamente a suo agio) che (at)tenta e cannibalizza, divora esistenze; la donna in bilico Fyae (Mara, beltà celestiale e modello d'accecante, accentrante grazia) che s'interroga sulle sue azioni mentre sperimenta e si perde; l'integro BV (Gosling, quasi una cover di La La Land) che si strugge per amore; e Rhonda (Portman, bionda e supersexy), la vittima sacrificale che ammanta d'un velo funereo l'atmosfera sospesa tra le meraviglie della natura.
Presenze magnifiche che danno corpo all'incorporea scrittura, ordine al magma inarrestabile di pensieri e (r)accordi filosofici e morali, senso all'imponente impianto estetico ed estatico: come elementi naturali del componimento filmico (accompagnati dalla parata di guest star, rivenienti dal mondo della musica – Iggy Pop, Johnny Rotten, la citata Smith, Lykke Li, i Red Hot Chili Peppers – e non solo, vedi Cate Blanchett, Val Kilmer, Holly Hunter), vibrano in assonanza sulle note dello spartito concepito dall'autore/demiurgo/direttore d'orchestra che si traduce in esperienza inclusiva, tattile, coinvolgente.
Rifuggano pure i ciechi sostenitori (bellamente prevenuti) della “forma-canzone”, della “forma-racconto”, della “forma-sostanza”: il Cinema di Terrence Malick – ardito, azzardato, fieramente “contro”, elitario ed elusivo, se vogliamo – suona una sinfonia tutta sua, di cui c'è un dannato bisogno.
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