Regia di Terrence Malick vedi scheda film
La grande bellezza secondo Terrence Malick.
Languido e insapore polpettone pseudo filosofico-esistenziale con un perennemente in quadro Christian Bale a vestire, per la 3 volta, i panni -metaforici- del tormentato Cavaliere Oscuro. È lui il Fante di Coppe del titolo, carta dei Tarocchi, simbolo di una personalità creativa e sensibile, la cui forza risiede nel cuore più che nella testa.
“Un uomo d’amore”, come Luciano De Crescenzo farebbe dire al suo professore di filosofia in
pensione Gennaro Bellavista.
Il Fante, secondo il metodo divinatorio, è una figura giovane e ancora immatura, incline all’introspezione, che vede il proprio percorso di crescita proteso verso una direzione sbagliata, ben lungi dalle intenzioni di partenza, con l’elevato rischio di perdere il contatto con la realtà.
La carta in posizione rovesciata riferisce l’incapacità di mostrare i propri sentimenti, il disperdersi degli affetti, la stagnazione delle situazioni, l’allontanamento, la critica, il rifiuto da parte delle persone più vicine. Può anche indicare le influenze negative esercitate dagli altri.
Per l’intera durata del lungometraggio, seguiamo il nostro laconico protagonista immerso nella fredda vastità d'imponenti scenari naturali, nei quali pare cercare conforto, o smarrito nell’afflitta desolazione dei paesaggi urbani di una California mai così plumbea, dove il sole arriva raffreddato, o costantemente (s)perduto tra i mesti e degradati luoghi umani, svuotato come gli asettici interni hi-tech che abita.
Il cinema di Terrence Malick persevera su sentieri sperimentali, di sicuro, ogni volta, una tacca più distante da quello canonico, dove la struttura tradizionale del film viene volutamente smantellata, puntando a scarnificare la narrazione, riducendo all’essenziale gli scambi di battute tra i pochi personaggi per trasferire le parole dal piano (esteriore) della comunicazione a quello (interiore) dell’auto-riflessione, così da spianare la strada ad un costante dialogo con se stessi, mettere in circolo un flusso ininterrotto di coscienza, favorito anche dalla paradossale incomunicabilità dei nostri tempi, oramai conclamata piaga sociale nonché pietra tombale dello spirito.
Un cinema radicalmente intimistico quello in cui l’autore americano si cimenta (e che con molta probabilità ritiene l’unico ancora possibile) e, forse, quello maggiormente in linea con il suo carattere notoriamente schivo.
L’autore di Badlands non si limita a lavorare sui contenuti e pone come condizione necessaria, allo scopo di scandagliare l’io, il coinvolgimento assoluto della forma. Che nelle sue mani diviene espressione concreta dell’anima. La sua 'incarnazione'.
Attraverso la forma comprendiamo gli affanni del nostro Cavaliere errante, il suo ondeggiante, instabile peregrinare da straniero in patria, in un mondo che non (ri)conosce più, che non sente più suo.
Le innumerevoli trascinanti immagini, fotografate nella sua limpidezza naturalistica, colorando dei toni tenui/neutri del grigio e del bianco le sfumature umorali del nostro alieno sulla terra, sono tenute insieme da un montaggio ‘invisibile’ realizzato in modo da azzerare ogni elemento di discontinuità visiva, come a voler riprodurre l’inarrestabile percorso nelle affollate stanze della sua mente e restituirci la sensazione di vivere in una dimensione onirica impalpabile, incorporea, perennemente fluttuante.
E il sonoro amplifica questo virtuale muoversi in assenza di gravità.
La struggente colonna sonora (il motivo appena accennato rimane all’istante impresso) accompagna il carezzevole naufragar del protagonista, che per brevi istanti diventa anche il nostro.
Tuttavia, al terzo giro di giostra, dopo l’immenso The tree of life e il palpitante To the wonder, l’esperienza sensoriale a cui ci siamo (bene) abituati, mostra i suoi limiti, rivelandosi meno incisiva delle precedenti.
Lo slancio spontaneo e appassionato di una felice intuizione diventa studiata maniera, la levità del volo di rondine perde la sua aura magica, i picchi emotivi subiscono uno sconcertante appiattimento, la ripetitività dei gesti e delle situazioni svelano gli scricchiolanti ingranaggi che la governano, tramutando il sublime in estenuante logorìo.
Eppure confidiamo che il cinema di Terrence Malick, nel suo lento ma costante divenire, possa ancora toccare vette di assoluto gradimento/godimento.
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