Regia di Terrence Malick vedi scheda film
Raramente delusione cinematografica è stata tanto cocente quanto la mia vedendo Knight of Cups. Tanto avevo amato The Tree of Life, altrettanto sono rimasto irritato da quest'ultimo film di Malick. Il suo cinema, ormai diventato antinarrativo, è tutto teso ad illustrare, in ultima analisi, la solitudine dell'uomo. Questa illustrazione passa attraverso immagini di una bellezza a tratti inquietante e tale da mozzare il respiro. Ma quando un film praticamente privo di dialoghi riesce ugualmente a risultare verboso, quando le sue sequenze sono spesso ripetitive e sfuggono sia la logica comune sia altre possibili linee esegetiche (perché il protagonista ogni tanto si trova nel deserto come Gesù? perché continua a fare il bagno vestito in mare? perché le donne intorno a lui sono tutte così belle?), allora è come avere voluto gettare uno sguardo oltre il picco del sublime, per trovarsi a scivolare a rotta di collo lungo il precipizio che si apre dall'altra parte. Malick sconta anche la volontà di ingabbiare il proprio film in una struttura costituita dagli arcani dei tarocchi, secondo uno schema che ricorda, purtroppo, l'ultimo von Trier, quello di Nymphomaniac. A voler essere cattivi, si potrebbe paragonare Knight of cups a una versione new age di La grande bellezza, ma questo Rick non sembra avere ancora raggiunto la scanzonata consapevolezza di Gep Gambardella. Restano le belle prove di un Christian Bale sempre credibile, di un Brian Dennehy piegato dal dolore e dai rimorsi (ma io avrei comunque scelto un attore più somigliante al figlio Rick), una Cate Blanchett che deve essere tuttavia avvisata dei rischi dello stereotipo, e soprattutto un grande mago della macchina da presa come Emmanuel Lubezki.
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