Regia di Terrence Malick vedi scheda film
Torna Malick, col suo stile inconfondibile e difficile da imitare. E stavolta fa centro. Il deludente "To the Wonder" aveva fatto storcere la bocca praticamente a tutti. Una storia d'amore e di tradimento così piena di risvolti non si adattava bene ad una forma di racconto per immagini-pensieri/ricordi. Stavolta il regista si agevola scegliendo un soggetto più semplice ma che richiede un'abbondante argomentazione per essere sviscerato e analizzato a dovere. Certo, il fardello del confronto col mastodontico "Tree of Life" permane e permarrà costantemente su tutta la futura filmografia del regista, ma devo ammettere che questo "Knight of Cups" ne esce fuori in maniera alquanto dignitosa.
All'inizio tuttavia si rimane un po' spaesati. Il pubblico chiedeva "più Tree of Life", e Malick gli dà esattamente quel che voleva, al punto tale che per i primi minuti sembra fare la parodia di se stesso. Cineprese subacquee che inquadrano il pulviscolo marino, Christian Bale che cammina malinconico nel deserto, inquadrature di piante d'arredamento... Poi ci rendiamo conto che in qualche modo questi elementi si contestualizzino nell'intimità del protagonista, perso nel deserto come nella vita fatta di agi e di insoddisfazione, alla costante ricerca di qualcosa di indefinito. E qui sta la trovata geniale del film: essendo Rick un uomo di cinema, senza porsi troppe domande si convince, e noi con lui, che l'elemento mancante della sua vita sia certamente l'amore.
In una delle scene di apertura e più incise del film, Rick si sveglia bruscamente nel pomeriggio a causa di una violenta scossa di terremoto. É terrorizzato, perché è impotente e soprattutto non è assolutamente pronto a morire. Il desiderio di completare se stesso si fa più urgente e trascorre le giornate flirtando garbatamente con varie ragazze e amandole tutte con gentilezza e sincera passione, come insegnava Bertrand Morane, "L'uomo che amava le donne" di Truffaut. Eppure questa sensazione di completezza stenta ad arrivare anche dalle frequentazioni di Cate Blanchett, Imogen Poots o Natalie Portman (quindi proprio non sta lì il problema...).
La soluzione arriverà da tutt'altra parte, e Rick potrà toranre a camminare su territori non più aridi ma addirittura con qualche accenno di verde. Come si capisce, i simboli e le metafore qui si fanno molto più semplici rispetto alla “via della Grazia” e alla “via della Natura”, pur non mancando comunque certe idee astratte e visionarie molto valide. Ho notato che anche la componente sonora presenta delle sperimentazioni particolarmente interessanti e riuscite: la caratteristica voce pensiero dei malinconici personaggi malickiani, spesso fuori dalla narrazione e dalle immagini, tende ad avvicinarsi sempre più al proprio referente, si sincronizza per qualche secondo e poi si riallontana, le bocche si chiudono o parlano a vuoto, e infine il montaggio ci porta di nuovo distanti.
Mi rendo conto che sia davvero da criminali decostruire in maniera così fredda e scientifica simili capolavori che vogliono parlare direttamente all’anima delle persone, ma spesso è l’unico modo per venire a capo dei film di Malick e del loro sofferto e complessissimo decoupage.
E a proposito di quest'ultimo, visti i precedenti, fa star male il pensiero di quanto materiale e quanti attori anche stavolta non siano sopravvissuti allo spietato final cut del regista. In certi momenti i meccanismi del montaggio vengono a galla e sembra che Malick scada in un "automatismo" che il suo stile non dovrebbe prevedere. Ma sono solo piccoli istanti all'interno di un'opera nuovamente perfetta e particolarmente ispirata.
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