Regia di Brian Percival vedi scheda film
Storia della falsità delle parole. La Morte racconta..
Quando intorno a un film si scatenano le critiche solite e peraltro ben comprensibili sul solito film "didascalico" qualche dubbio certo comincia a venire, ché il genere "didascalico", "edificante", in tutta la sua struttura negativa, potrebbe anche essere ormai un genere vero e proprio, visto che lo è anche il genere "demenziale". Ci starebbe quindi, se si decidesse di dare chance neanche tanto promettenti a un altro film di questa serie, come la Storia di una ladra di libri, che pure si presentava come il lacrimevole strapazzo di un quadro storico ben problematico e, per certi versi, assurdo. Però, di fronte a questo genere di film, fatte queste premesse, non si sa in che misura influirà il fattore del "non essere prevenuto" e allo stesso tempo il fattore del "è comunque un film di genere". In un certo senso, influendo entrambi allo stesso modo, si può pensare che, alla fin fine, l'approccio sia imparziale e problematico, benché qualunque riflessione in itinere risulterà sempre "parteggiare" verso un andamento. Quindi tanto vale farsi prendere dall'eventuale emozione (anche un po' fasulla) e vedere se, a livello dell'intrattenimento, il film funziona. E su questo si passa a una soggettività estrema, e ad altri parametri ulteriori, per cui il singolo spettatore, che normalmente odia questo genere di film, si ritrova paradossalmente coinvolto, o quantomeno non annoiato, pur contestualizzando il tutto e comprendendo che è tutto abbastanza patetico e rassicurante. Ma cosa può esserci effettivamente di positivo in un film che non sembra proporsi così innovativo? Molto, paradossalmente, un molto strangolato da quelle dannate parole inglesi che si ritrovano scritte dappertutto. Se ancora la voglia di destare emozioni nello spettatore è un presupposto che si può accettare, da un film, l'idea invece che si debba facilitare lo spettatore mostrandogli parole inglesi in un contesto che di inglese aveva ben poco, questo diventa espressione di un cinema ricattatorio e molto poco "attento". Specie se le parole sono così importanti, nella storia raccontata. Quindi, nell'infernale pastrocchio dell'abecedario anglosassone della piccola Liesel, a salvarsi è l'intrattenimento (per il sottoscritto) e la scelta del punto di vista (oggettivamente). Se anche nel Bambino con il pigiama a righe il punto di vista proveniva dal mondo tedesco, lì poi ci si approcciava all'antisemitismo e a un ebreo vittima, con il risultato di un film buono ma poco rappresentativo; qui, anche se l'approccio all'antisemitismo c'è, è solo un aspetto di una storia raccontata dal punto di vista di tedeschi vittime tanto quanto gli ebrei. Nelle fughe in occasione dei bombardamenti, nella sofferenza, nella paura per i nazisti, il film sembra scagionare, in maniera che può essere fantasiosa o problematica in egual misura, un piccolo gruppo di esseri umani, dentro la Germania, che dovettero adeguarsi al populismo dilagante e non poter dire la loro per salvare la loro vita, ché qualunque accusa con la conseguenza della Morte non avrebbe avuto senso. In questa debolezza estrema, nei personaggi dei genitori adottivi di Liesel, si può individuare una certa problematicità: non sono assolutamente eroi, ma neanche anti-eroi, sono persone semplici e impaurite, capaci di sentimenti, è vero, ma incapaci davvero di combattere, perché non possono pensare all'indignazione del nazismo più di quanto debbano pensare al proprio sostentamento. Decidono sì di nascondere l'ebreo, ma lo tengono scomodo nella cantina senza porsi tanti problemi finché non si presenta il sentimento (hollywoodiano) e a quel punto l'empatia "fra razze" può avere inizio. Nell'individuare poi simpatia nei confronti di un bambino che inizialmente festeggiava nei cortei per il compleanno di Hitler potrebbe esserci un che di eversivo, sebbene poi lo stesso bambino urli "odio Hitler" sulle rive di un laghetto. E questo è per dire che Storia di una ladra di libri, nel suo essere risaputo, si salva in alcuni aspetti che pure vanno contestualizzati in un genere che più che semplicemente "favolistico" si potrebbe definire quasi "dickensiano" (bambini vittima che finiscono adottati da ricchi: Dickens però è intoccabile, chi lo emula ora con risultati altrettanto didascalici invece va distrutto a priori). Tant'è che alla fine Liesel, in un finale che comunque non ci si aspetta del tutto, visto che tutto sembra proteso verso il lieto fine, oltre a non essere così strappalacrime come dicono in molti (tragico, è tragico, triste, è triste, ma dà anche una sana parvenza di disillusione), è seguito anche da una nuova adozione, ad opera di una donna che si trova anch'essa dalla parte dello schieramento dei "cattivi" nazisti, ma che si salva, in umanità, grazie al sentimento (per il figlio morto) e alla letteratura (aspetto che si potrebbe prendere sul serio, se non fosse, ancora, per quelle dannate parole in inglese). Infine, nella volontà umile di salvare parzialmente il film, che traduce in intrattenimento abbastanza sano una sana problematicità di fondo (sempre, comunque, ammaestrata), il messaggio, didascalico ed edificante, è anche giusto e nientemeno che "utile" (schifosamente utile) alle nuove generazioni: l'essere umano non è cambiato, la Morte è uguale per tutti, e gli uomini sono "uguali" sotto il profilo esistenziale. Il fatto che la guerra si senta poco, non vuol dire che non rimbombi e tuoni per smantellare illusioni infantili che pure finiscono distrutte.
Comunque, assoluta comprensione per chi, il film, lo detesta: questo non per giustificare chi scrive, ma per far capire che il fastidio c'è, guardando il film, ma è paradossalmente salvato. Ben altri film dovrebbero generare odio totale, questo (se non fosse per quelle parole inglesi!) sarebbe addirittura inoffensivo.
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