Regia di Brian Percival vedi scheda film
Possiamo annoverare questa pellicola tra quelle che parlano dell’Olocausto? No, non credo, è solo l’habitat dove si sviluppa la storia ma il romanzo ci parla della parola e della vita, quella che sopravvive alle vicissitudini umane.
Cosa porta uno scrittore australiano a scrivere un romanzo che parla di nazismo, della sua avversione contro i libri (e quindi contro la consapevolezza e la libertà della cultura), della povertà dei tempi della guerra, la fame, la disperazione e la rassegnazione degli abitanti delle piccole comunità tedesche, quasi del tutto ignare delle conseguenze della follia e del furore nazista? Quale background culturale può avere uno scrittore australiano pluripremiato e specializzato in romanzi per bambini per descrivere i patimenti di una bimba ai tempi della seconda guerra mondiale? Markus Zusak nasce il1975 a Sydney da madre tedesca e da padre austriaco e infatti per scrivere “La bambina che salvava i libri” si è ispirato alle esperienze vissute dai genitori durante quel periodo. Questa opera poi arriva nelle mani di un regista televisivo che ne ricava un buon film illustrativo, caratterizzato da sentimenti patriottici nazionalistici, orrore della guerra, amore verso la letteratura, verso i libri e soprattutto verso la “parola”. La vita è piena di parole. Le parole riempiono la nostra vita attraverso i dialoghi tra persone e quando la Morte arriva, improvvisa o no, viene a interrompere le parole dette, che fortunatamente rimangono nei libri, per sempre. Ma pensiamo a quale senso di meraviglia provoca tutte le volte lo stupore dell’analfabeta quando finalmente realizza la lettura, l’entusiasmo che lo anima quando impara a leggere e scopre il mondo dei libri: gli si spalanca l’universo.
E’ proprio quello che succede alla piccola Liesel Meminger, una povera e denutrita bambina di nove anni che affronta un duro viaggio di trasferimento con la mamma ed il fratellino nel rigido inverno tedesco per essere affidata in adozione ad una coppia matura senza figli che abita in un piccolo paese alle porte di Monaco. La povera mamma di Liesel rinuncia a lei per farla sopravvivere alla miseria e alla fame ma ciò comporterà un ovvio e forte trauma affettivo e psicologico alla piccola, la quale viene accolta in maniera contrastante dai due nuovi genitori, i signori Hubermann. Lei, Rosa (per la prima volta Emily Watson in un personaggio scorbutico e antipatico, è un evento!) è una burbera donna di mezza età che solo in seguito mostrerà il cuore d’oro che nascondeva; lui, Hans (Geoffrey Rush, un uomo per tutte le stagioni: quando un regista si affida a lui va sempre sul sicuro, benedetto il giorno in cui lo scoprimmo in “Shine”) è un semplice uomo dalla bontà e gentilezza degna di un milord inglese. Hans non è, come sembra, un uomo pavido e senza carattere, è una persona mansueta e positiva, sempre sorridente e gentile con tutti, che preferisce passare per un marito sottomesso pur di rimanere lì a difendere la sua famiglia in questi tempi difficili, soprattutto adesso che è arrivata questa bimba, spaventata e deperita ma bella e dagli occhioni intelligenti. Hans entra sin dal primo momento in sintonia con la piccola Liesel e gli basta qualche occhiolino e una caramella per riuscire a darle un po’ di serenità e farle recuperare fiducia nei nuovi genitori. Nella loro cantina, opportunamente adattata per farla giocare, studiare e insegnarle a leggere, per lei inizia a spalancarsi il meraviglioso mondo della lettura. Liesel che è ancora analfabeta inizierà con il primo libro che le è capitato in mano; il libro è quello che ha raccolto durante la sepoltura del fratellino Werner morto appunto durante il faticoso viaggio: “Il manuale del becchino”. Non è certo un bell’argomento per iniziare, ma ogni pagina di carta stampata esistente sulla terra è utile a questo scopo. Siamo agli inizi degli anni ’40 ed il nazismo si è diffuso nella popolazione tedesca, anche nel loro piccolo paese, Molching, vicino a Monaco; perfino nell’ambito delle piccole amicizie scolastiche e di strada della piccola Liesel. La strategia della diffusione della dottrina nazista esalta il senso di nazionalismo dei cittadini e sviluppa l’odio antisemita e la terribile Notte dei Cristalli, che bagnerà di violenza e sangue anche la piccola comunità, non risparmierà gli ebrei di quella zona. La tranquilla, monotona e difficoltosa vita quotidiana della famigliola Hubermann, che abita in via del Paradiso, viene così sconvolta dall’arrivo di un fuggitivo ebreo, Max, che viene accolto e nascosto nella cantina, luogo ormai assurto a isola di libertà, di cultura, di salvezza, sia del corpo che dello spirito. Un piccolo Eden in via del Paradiso. Un giorno, dovendo consegnare una cesta di bucato lavato e stirato – lavoro che svolge la burbera Rosa, il cui compenso è l’unico sostentamento della famiglia – Liesel entra nella casa del severo borgomastro dove la moglie Ilsa Hermann la accoglie premurosa. Anche lei è senza figli (le è morto l’unico figlio nella prima guerra mondiale), ancora una donna senza prole, segno nefasto dei tempi bui dell’umanità. Vedendo quella bella bimba, che le ispira un forte senso materno, le fa un gesto che avrà importanti conseguenze: le mostra la nutrita sala della biblioteca, ricchissima di centinaia di libri, quasi per condividere la sua gioia della lettura con una fanciullina che le piace così tanto, come una figlia. Sembra il contrappunto ai roghi di libri: i falò dei nazisti bilanciato da una collezione preziosa di volumi. Per Liesel quella stanza è un’isola del tesoro, da lì può attingere per arricchire la sua conoscenza e approfondire il suo amore per la lettura. Comincia così, incredibilmente, a portare via i libri di nascosto per leggerli nella cantina assieme al rifugiato Max. Lei autoassolve i suoi, chiamiamoli, prelievi affermando di prendere a prestito i libri, ma affettuosamente è ormai una “ladra di libri”: in realtà lei i libri li “salva”. Aveva già cominciato a salvarli nella emblematica sera del grande falò che i soldati tedeschi organizzarono per bruciare i libri e ogni segno di libertà. Un fuoco che serviva per spegnere. Quella notte la speranza e la libertà di espressione vennero tacitate dalle fiamme altissime e prima di andar via dal quel falò Liesel era riuscita a nascondere sotto il cappottino un libro semi bruciato. Lei, i libri, davvero non li ruba, li salva!
La guerra è ormai in pieno svolgimento e durante i bombardamenti tutti corrono nei rifugi e lì Liesel fa compagnia e dà conforto a tutti quei volti preoccupati recitando a memoria le sue letture e i vecchi, le donne e i bambini ascoltano muti e confortati le parole scritte nella mente della sveglia bimba. “La memoria è lo scriba dell’anima, diceva Aristotele.” le ricorda il suo fidato amico Max. E così in quel rifugio la recitazione della lettura diventa evasione dalla brutalità dei tempi, fuga dalla realtà
Ecco, i bombardamenti. Quelli dei nemici, ovviamente. Ma quali sono i nemici? Quelli che noi chiamiamo alleati? Nel film ci sono diverse contrapposizioni: ci sono scuole con tanti bimbi e mamme senza figli, libri bruciati e biblioteche nascoste, nazisti brutali e violenti e tedeschi di buona volontà. E quando con l’ultimo e devastante bombardamento la Morte passa a riscuotere i suoi crediti i soldati tedeschi raccolgono pietosamente i corpi e miracolosamente salvano la nostra eroina. Ma come, adesso i cattivi sono gli americani? La colpa di tutti questi cadaveri è di chi cercava di liberare l’Europa dal nazifascismo? Fortunatamente dopo qualche attimo di perplessità, arrivano gli Alleati a ristabilire la pace e liberare i poveri tedeschi oppressi dal regime, i quali, mostrando sollievo e voglia di tornare a vivere, ci restituiscono la logica della verità. Meno male! Il regista aveva ancora spiazzato con l’ennesima contrapposizione. L’ultima davvero? No, anzi, la più eclatante è la voce narrante. E’ una voce maschile e per un buon tratto di narrazione non si capisce chi sia. O meglio c’è il sospetto ma non la certezza. Equando pian piano si scopre che è la Signora Morte non si può che restare sorpresi: la Morte ha una voce maschile e parla di sé al femminile! E non è tutto: in un film colmo di frasi ad effetto, quella che fa più riflettere e che dà più tristezza è proprio quella che dice la Morte nel finale: osservando le conseguenze di tante barbarie, ammette infatti che paradosso, sconcerto e pietà la animano perché non capisce come sia possibile che nell’uomo possano fondersi bellezza e brutalità. L’uomo rimane per lei un mistero che la perseguita e in compenso conserva le storie più belle e per Lei la storia della ladra di libri è una di queste.
Possiamo annoverare questa pellicola tra quelle che parlano dell’Olocausto? No, non credo, è solo l’habitat dove si sviluppa la storia ma il romanzo ci parla della parola e della vita, quella che sopravvive alle vicissitudini umane. Difatti nell’ultima sequenza la Morte, filo conduttore del racconto, ci rivela che Liesel muore a 85 anni a Sidney in mezzo alla sua famiglia, pacificata, ma ciò che rimane è la sua storia ed il suo amore per i libri e la lettura. Le buone intenzioni di partenza del regista Brian Percival purtroppo si sono andate a infrangere contro una regia un tantino piatta, con poche scosse. La trama offre spunti e motivi di buona emotività e spettava al regista tradurre tutto ciò in emozioni, che purtroppo arrivano smorzate allo spettatore. Certamente non si doveva cadere nel sentimentalismo o nella retorica, ma le continue digressioni dalla via maestra (forse per raccontare tutto il corposo libro) allentano spesso la morsa dell’emozione, che così si disperde. E difatti un quarto d’ora in meno non avrebbe guastato, il film andava asciugato; inoltre ci sono molti momenti con eccessi romanzati e didascalici. A tratti ho avuto l’impressione di stare a guardare un film per ragazzi (forse lo è?). La giovane Sophie Nélisse, che già abbiamo visto tra gli scolari di “Monsieur Lazhar”, è chiaramente una ragazzina dotata, anche se sembra spesso una smorfiosetta e poi abbastanza in carne per poter interpretare una bimba deperita e ammalata. Ma la vedremo ancora, sicuramente, e capiremo meglio il suo valore. Indiscutibilmente bravi i due genitori adottivi Emily Watson e Geoffrey Rush: i loro sono duetti teatrali recitati da grandi attori. Altra nota positiva il tema musicale del solito e super premiato John Williams che dà maggior emozione nei momenti topici.
E’ forse un film che mirava ad un giudizio di ottimo, ma tirando le somme è solo da quasi sufficienza, non di più, ma merita di essere visto.
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