Regia di Peter Segal vedi scheda film
«Tutto il mondo ride di noi, ma noi non siamo morti!». Venghino, signori, che Stallone ha trovato un nuovo amico lungo la strada del riciclaggio. Dopo Schwarzy e i vari mercenari, è il turno di De Niro sulla giostra dell’autodissacrazione, come se il buon Bob non avesse già fatto abbastanza per demolire il proprio mito. Ma questa volta sul ring salgono i mostri sacri Balboa e LaMotta, reincarnatisi negli ex campioni dei medio/massimi McDonnen e Sharp. Trent’anni dopo il ritiro del secondo, tra i due divampa nuovamente l’atavica rivalità e i loro fisici ansimanti e stracotti vengono trascinati un’ultima volta a combattere. Corpi in decomposizione dentro tute in latex per la performance capture, destinati a ringiovanire in un videogioco i cui mirabolanti effetti sono proposti nel prologo: c’era già tutto in Rocky Balboa, ma la riflessione sui dispositivi dell’immagine va a segno. A mettere al tappeto il film ci pensano simbologie patetiche (Sharp realizza sculture di fiori con rifiuti arrugginiti) e autoironie parodiche stalloniane che ormai hanno stancato da tempo anche il suo pubblico (ora le uova crude al mattino fanno male e i pugni alla carne non sono igienici). Ma l’affondo decisivo lo danno De Niro, vettore comico ormai consolidato, e il comprimario Arkin, vecchio allenatore arrapato e portatore di disilluso umorismo («Non spendere altri soldi per me, è come lucidare uno stronzo!»). Sullo sfondo Kim Basinger, un tempo contesa e ora rottame tra i rottami di miti che furono. Il cerchio, a suo modo, è chiuso. Speriamo.
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