Regia di Peter Segal vedi scheda film
Fino a metà anni novanta Ferruccio Amendola doppiava sia Sylvester Stallone che Robert De Niro. Follie del doppiaggio italico. Amendola aveva persino Dustin Hoffman e Al Pacino fino al ’91. Dico questo perché insieme le due star non avrebbero potuto coesistere. Ci fu l’eccezione COPLAND ma De Niro aveva una piccola parte e in quell’occasione (come avvenne nel successivo RONIN) la validissima voce del sor Ferruccio stava perdendo il monopolio. O era Stallone che cedette lo scettro della voce? Non ricordo più. Oggi i due sono doppiati rispettivamente da Massimo Corvo e Stefano De Sando, due buone voci, anche se la versione originale di qualsiasi film è sempre un’altra musica. IL GRANDE MATCH è una di quelle opere costruite a tavolino che ultimamente vanno per la maggiore a Hollywood. Riesumare, rivisitare in chiave semiseria vecchi e intoccabili miti dell’immaginario: ROCKY e TORO SCATENATO. I loro protagonisti per l’esattezza. Non proprio Rocky Balboa e Jake La Motta ma due pugili simili che trent’anni prima erano acerrimi rivali sul ring e nella vita. Billy “The Kid” McDonnen vs. Henry “Razor” Sharp, in mezzo il figlio del loro manager Dante Slate jr., un giovanotto di colore desideroso di ripercorrere la carriera del padre, imbrogli esclusi. Henry è un operaio che nel tempo libero fa orrende sculture e assiste l’unico vero amico che gli è rimasto, il suo vecchio e caustico allenatore Lightning. Billy è un rivenditore d’auto e intrattenitore by night, beve e mangia smodatamente. Quel pasticcione di Dante li convince separatamente a prendere parte ad un videogioco che li riesumi almeno virtualmente. Ne nasce un alterco che si diffonde su youtube mettendo le ali alla futura rivincita e al marketing sull’evento. La sottotrama prevede Sally, ex di Henry che ebbe un flirt con il frivolo Billy e da cui nacque B.J. il quale si riavvicina al padre, lo allena e bla bla bla.
IL GRANDE MATCH è una commedia dignitosa e divertente, nessuno scade nella macchietta (tranne Dante jr. o forse il doppiaggio sopra le righe). La dose di battute ad effetto è alta. Autoironia, citazioni dei colossi passati che non torneranno più, nuove tecnologie disunite dalla nostalgia per fortuna. Ci sono pure i buoni sentimenti con riscatto personale e recupero familiari persi compresi nel prezzo, cose che piacciono al botteghino e agli americani. Non manca un nipotino delizioso e amorevole. Il cast fa la somma: Stallone ormai recupera punti a vista d’occhio (qui gliene manca uno), le mani sono deformate dalla “working class hero” non dall’artrosi o dai colpi menati a vuoto e non in tante pellicole inutili passate. La sua storia con Sally (la rediviva Kim 9 e ½ Basinger) fa tenerezza ma i risultati sono distanti dall’ottimo ROCKY BALBOA. Bob De Niro sceglie i copioni, li propone, ha tre assistenti per film e lavora di mestiere, smorfie e grinta. Funziona ancora. Alan Arkin è una spalla di lusso che dopo Pacino e Walken si spupazza e si gestisce alla grande anche questi due. La voce di Manlio De Angelis (come non ricordare Joe Pesci) è basilare. Ma sì facciamogliela passare anche stavolta alle lobby del doppiaggio e allo star system hollywoodiano.
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