Regia di Mario Monicelli vedi scheda film
Meritoriamente riportato all’antico splendore dalla Cineteca di Bologna, torna in sala Risate di gioia, uno dei film più sfortunati e spericolati della carriera di Mario Monicelli. Il fatto che lo si riproponga oggi, ai tempi della crisi economica e della disillusione totale, non è secondario, perché sulla carta l’Italia descritta nel film non è poi tanto dissimile da certe realtà contemporanee: un paese di morti di fame, di disgraziati, di emarginati, capaci di risolvere tutto con una risata e con una preghiera. La differenza di fondo sta nel contesto: lì si raccoglievano ancora i cocci della guerra (l’episodio al ballo degli aristocratici tedeschi che “non hanno fatto la guerra” è emblematico) e si sperava, comunque, in un futuro migliore, oggi il futuro è già passato.
Lasciando stare questi appunti, il film non fu un successo commerciale malgrado la presenza dei due divi e la regia del sommo Mario, che veniva dagli exploit de I soliti ignoti e de La grande guerra. I motivi sono riscontrabili nelle caratteristiche più evidenti di quest’opera rischiosa e quantomeno particolare: è un film amarissimo, spesso cattivo se non addirittura acido, disincantato, disperato. Non mi sorprende che nell’Italia che entrava nel boom economico una storia come questa (tratta da due racconti di Alberto Moravia) non abbia incontrato l’interesse del pubblico. È giusto recuperarlo per almeno tre motivi. Il primo è la struttura, avvincente benché non sempre fluida: una notte di Capodanno (all’epoca si diceva ancora San Silvestro) che inizia nella miseria di vite piccole e spiantate, prosegue come in una grande fuga a tappe per mangiare e inseguire qualche sogno di seconda mano (ristoranti, metropolitane, palazzi nobiliari) e finisce nell’alba di un giorno che inevitabilmente inizia nel peggiore dei modi.
Il secondo è la messinscena di Monicelli, sciolta, complessa, capace di fotografare con maestria tanto le folle (le feste rappresentate sono quasi felliniane nel senso dei Vitelloni) quanto i singoli personaggi, contraddistinta da un tono sottilmente melodrammatico senza finire nel patetismo più spiccio. Il terzo, e il più importante, è il memorabile duetto dei due protagonisti: se Anna Magnani, di ritorno dall’Oscar e dai melodrammoni americani, conferisce alla sua Gioia Fabricotti detta Tortorella, comparsa di Cinecittà, tutta la disperata vitalità di chi spera comunque che il domani offra qualcosa di diverso (ma la più grande attrice italiana d’ogni tempo non amava affatto il film), Totò, nei panni del guitto Umberto Pennazzuto, un vinto assoluto, mette a segno una delle più belle e misconosciute interpretazioni del suo percorso recitativo (mai un eccesso, mai una smorfia di troppo, mai niente fuori posto: che attore stupendo).
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