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Indigène d'Eurasie

Regia di Sharunas Bartas vedi scheda film

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La recensione su Indigène d'Eurasie

di OGM
8 stelle

Il mondo della criminalità come territorio contiguo alla miseria, morale e materiale. Una parentela che però volta le spalle al degrado sociale per abbracciare la poesia ribelle dell’emarginazione, con le sue sommesse rivendicazioni libertarie ed anticonformiste. Sharunas Bartas, dal suo cortometraggio d’esordio in poi, non ha mai smesso di ricordarci che l’umanità è una moltitudine in costante movimento, ai bordi della quale si aggirano, solitari e smarriti, gli ultimi. Sono il lirico contorno di una massa tumultuosa e indifferenziata, gli individui che si distinguono per la fantasia con cui nobilitano l’arruffata stravaganza della loro persona, come anche la variopinta sporcizia dell’ambiente in cui vivono. Sono laceri esteriormente o lacerati interiormente, perennemente refrattari ad una classificazione, perché rappresentativi dell’essere in conflitto con il mondo. L’interazione con il diverso da sé è il fulcro di ogni avventura, di ogni percorso di formazione o di cambiamento. E la ricerca deve necessariamente passare attraverso tutte le sperimentazioni possibili, tentando ogni cosa e il suo contrario. Il paradosso è la sintesi di questa caccia all’identità smarrita ed è il prodotto di un’irrequietezza iperattiva. Gena è un trafficante di droga lituano, che parla correntemente quattro lingue, si sposta continuamente tra Vilnius, Mosca, Parigi, ed ama contemporaneamente due donne, una ragazza francese ed una prostituta russa. Ha ovunque amici e nemici, e la sua collocazione all’interno dello scenario malavitoso resterà incerta per tutta la durata del film. Ha crediti e debiti. È un traditore, un vendicatore, un sicario, un uomo in fuga. È il criminale che interpreta il ruolo con tutta l’anima, vivendo in una clandestinità cosmopolita, nella quale non è possibile sentirsi mai a casa. È cresciuto come un senza famiglia, allevato dallo zio dopo la morte dei genitori, ed è stato abituato all’idea dell’abbandono, che continua ad accompagnarlo anche da adulto: Gena, nelle relazioni sentimentali, è quello che viene e va, che promette e non mantiene, e finisce per diventare a sua volta vittima della propria incostanza. Non si fida di nessuno, e di lui non ci si può fidare. Mentire, contraddirsi, scappare sono i capisaldi del suo modus vivendi,  di un’esistenza che è impossibile mettere a fuoco. Questo film la dipinge come una macchia sfocata, che illumina i bassifondi con i colori tenui dell’indeterminatezza. Le tinte sono sommesse e indistinte per la necessità di non dare nell’occhio, ma anche perché idealmente ispirate alla penombra che circonda gli esseri perseguitati  e malvisti. È la tonalità del sospetto, diluita nell’amarezza di doversi sempre nascondere, di poter appena sfiorare il gusto corposo delle cose belle e importanti. Bisogna trattare tutto come se fosse già perduto. Assaporarlo sulla scia di una momentanea attrazione, senza appassionarsene. Inventarne il presente, senza pretendere che il momento attuale sia la premessa di un futuro reale. Gena non riesce a tenersi nulla. Il suo girovagare, alla lunga, intacca la sua solidità e lo rende poco convincente. Anche il suo passaporto falso viene subito scoperto. E lui non è più in grado di proteggere le sue compagne. In questo noir transnazionale il dono dell’ubiquità è come il sintomo di una maledizione: è lo sfilacciamento della personalità, che riduce in stracci l’uomo come essere sociale. È la parte degenerata e improduttiva della povertà, la cui autolesionistica provocazione è gettare al vento quel poco che si ha, anziché raccogliere ciò che gli altri disprezzano. L’atto di spogliarsi di tutto, che in principio assume connotati eroici, può volgere in una incosciente perversione. Il passaggio è impercettibile, e quindi non altera l’apparenza di una coraggiosa scelta di vita, che costringe a restare all’erta, vigili e pronti ad agire, e costantemente disposti a dire addio. 

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