Regia di Terence Nance vedi scheda film
Con Terence Nance, il black cinema scopre lo sperimentalismo dell’analisi psicologica. Un ragazzo si racconta, riflettendo su di sé. L’argomento sono i suoi fallimenti, di cui via via si scoprono le cause nella sua proverbiale sfortuna, nelle sue incapacità, ma soprattutto nella sua natura solitaria e riservata. Qualcosa gli impedisce di essere amato. Non è riuscito a stabilire una relazione profonda e duratura con nessuna delle sue coetanee con cui ha stretto amicizia, pur sentendosi attratto da loro e ricevendo in cambio anche qualche attenzione particolare. Il protagonista le rievoca, una ad una, trasformandole nelle muse mancate di una passione che ha sempre e solo sognato, senza mai poterla fare propria. Non gli resta, allora, che affidare i suoi desideri al libero volo della fantasia, in un cielo colorato con la matita in cui tutto è semplice, a cominciare dalla bellezza, che si può stilizzare in un disegno animato, oltre che idealizzare in una poesia. L’adorazione per quelle figure femminili è una preghiera che – sotto forma di inserto grafico - interrompe il corso dei pensieri dolorosamente avvinghiati alla realtà, per esprimere un’emozione amara come la frustrazione e dolce come la sottomissione. Nelle riprese live action – raccolte sotto il titolo How would u feel - Terence attraversa invece il suo tempo ripercorrendo ripetutamente il passato, fino a sviscerarne tutti i punti oscuri e gli errori che hanno compromesso le sue avventure sentimentali, e che finiscono per rivelarsi come i prodotti della sua inadeguatezza, celata dietro una corazza di indifferenza ed apparente equilibrio. Il ragazzo ama indossare una maschera comportamentale che impedisce di far trapelare ciò che egli prova, fino a renderlo invisibile agli occhi di chi gli sta intorno. In sua presenza, nessuno si sente importante, e quindi ognuno è indotto ad abbandonarlo, o a cercarsi storie alternative. Terence gira il film della propria vita come un tardivo tributo a quella sincerità che non ha saputo scegliere come fondamento del suo rapporto col prossimo. Mano a mano che i fotogrammi scorrono, il suo personaggio pensa e ripensa alle proprie azioni, perfezionandone la descrizione e l’interpretazione, e dunque completandone l’inserimento nel contesto di un mondo che era a portata di mano, e con il quale, ciò malgrado, egli non è mai stato in grado di entrare veramente in contatto. Il rimpianto si fa indagine (auto)critica sulle occasioni perdute, così irrimediabilmente tramontate che si possono ormai trattare come oggetti inerti, sui quali sperimentare a piacere, sezionandoli e rigirandoli tante volte tra le dita. E questo gusto per l’autopsia delle disillusioni si unisce ad un’estrosa voglia di farsi del male, scavando a fondo negli abissi delle proprie assurde debolezze, a suon di stridori stilistici e circoli viziosi della narrazione. An Oversimplification of Her Beauty è una spirale che vortica intorno ad una situazione misteriosamente senza uscita: la prigionia dell’io vissuta come una condanna, dalla quale nemmeno un ragionato uso della creatività pittorica e letteraria può salvare chi, per destino o vocazione, ne è tragicamente toccato.
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