Un poliedrico personaggio come P.Ridley non può che dividere le sue capacità artistiche fra diverse forme espressive, ad oggi però che in poco più di un ventennio ha sfornato solo tre titoli, a dispetto di tante altre attività frenetiche l’indicazione che il cinema non sia per lui una priorità non sembra proprio un azzardo. Il suo ormai lontano esordio del 1990 con Riflessi sulla pelle non solo gli è valso un Pardo d’argento in terra elvetica con buon riscontro della critica, ma ha creato intorno al film una piccola aura di culto fra il pubblico che lo ha apprezzato. Nell’entroterra rurale e disastrato dell’America degli anni 50, Seth, un ragazzino di nove anni con i suoi amici vive quella dimensione magica e crudele che accompagna l’infanzia verso l’età adulta. Il quadro famigliare è depresso al pari dell’ambiente sociale circostante che però l’occhio e l’immaginario di Seth non può che trasformare in eventi epici per la sua formazione. Seth e gli amici prendono di mira la misteriosa vedova Dolphine Blue, a cui attribuiscono poteri malvagi sospettandone una segreta natura vampiresca. Intanto nella comunità si verificano fatti insoluti sempre più tragici, e il fratello maggiore di Seth di ritorno dal servizio militare s’innamora della donna. Mentre l’amore per la pittura e per la fotografia si riversa in dosi massicce dentro immagini tendenti alla saturazione cromatica e compositiva, l’attenzione al testo che nel corso del film si arricchisce di nuovi e interessanti spunti narrativi viene sostanzialmente coperta da una forza estetica ridondante che almeno nella prima mezz’ora risulta comunque apprezzabilissima. Per dirla musicalmente, assistiamo ad una “Picture at an exibition” che non può lasciare indifferente anche lo spettatore più sospettoso. Inquadrature, movimenti di macchina, gioco di contrasti di colore, un senso drammatico sempre più incombente misto ad uno sguardo ironico calcolato. Possiamo citare l’immagine di Seth seduto in casa della vedova che ascolta la storia del defunto marito cacciatore di balene, mentre alle sue spalle appesa alla parete, una dentatura di balena spalancata sembra inghiottirlo surrealisticamente. Oppure la copertina di un libro a fumetti sui vampiri che il padre di Seth ama leggere in solitudine, che raffigura proprio una donna vestita come Dolphine. Sembrano indovinati passaggi per un racconto per immagini che non richiedono troppo al testo dando spazio a quel mondo interiore del ragazzino che assume dimensioni percettive abnormi. Poiché la carne al fuoco aumenta, ma il punto di vista predominante è quello di un bambino ci si aspetta che il racconto in sé finisca la sua subalternità, cercando di approfondire o di spiegare quello che l’immaturità di Seth logicamente non può fare. Ridley invece non cambia consistenza alle immagini, che dovrebbero rappresentare quel contrasto interiore che modifica la misura drammatica, lasciando che il film si allinei sul classico percorso di formazione che lo spettatore è costretto ad auto immaginarsi. Ulteriore prova del nove, la scena finale il cui forte impatto ha riscosso un consenso generalizzato ma che manifesta l’incompiutezza di un buon lavoro che poteva anche superare raffinatezza ed estetica che così invece ne hanno rappresentato il limite invalicabile.
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