Regia di In-shik Kim vedi scheda film
Kim In-shik è sicuramente uno dei nuovi talenti del cinema della Corea del Sud che tante sorprese in positivo ci ha regalato in questi ultimi anni. Meno conosciuto soprattutto a livello internazionale di altri celebrati nomi del suo paese, probabilmente anche a causa della sua scarsa produzione (basta vedere le pochissime notizie che si possono trovare su di lui andando in giro per il web per rendersi conto che è davvero un autore sconosciuto ai più), è sicuramente un regista di punta da tenere sotto attenta osservazione e che - se continuerà con il positivo andamento delle prove che ci ha offerto fino ad ora - credo che prima o poi non potrà che esplodere con prepotenza, poichè le sue pellicole hanno modalità e stilemi davvero interessanti e tutti da scoprire, che vanno oltre i generi fin qui da lui attraversati per fonderli insieme e rielaborarli in una maniera davvero inusuale e molto convincente.
Non è, come si sul dire, “di primo pelo”, visto che è nato nel 1960, ma ha una preparazione molto accurata maturata proprio in campo cinematografico e non solo, che lo ha portato a diplomarsi prima alla Chonnam National University, e a perfezionare poi i suoi studi a Parigi, con una laurea conseguita presso l’École Supérieure d’Etudes Cinématographiques.
Non si hanno però molte notizie per quel che riguarda il suo successivo apprendistato lavorativo in patria: si sa soltanto che il suo folgorante debutto ufficiale come regista nel mondo della settima arte è avvenuto solo nel 2002, e quindi a 42 anni, con Road Movie, un’opera prima che io purtroppo non ho visto, ma che mi dicono ha riscontrato ampi apprezzamenti e consensi non solo in Corea (dove ha ricevuto moltissimi premi compreso quello come “autore emergente” assegnato allo stesso Kim In-shik), ma in tutti gli Stati in cui è riuscita ad approdare, e non soltanto per le tematiche trattate che riguardano ovviamente il comparto che in genere viene definito come “cinema erotico” (per quanto credo sia difficilissimo etichettare i suoi lavori inserendoli in una categoria “certa”, visto che una delle sue prerogative più evidenti sembra essere proprio quella di voler contaminare le cose e i generi che si sfiorano e si amalgamano all’interno di uno stile davvero molto particolare e personale), ma anche per l’anticonvenzionalità del suo sguardo nel declinare il rapporto amoroso e il sesso che è comunque il centro di ogni sua creazione.
Questo Hypnotized (Ulgool Upnum Mineyo in originale) presentato al Cinema Odeon di Firenze qualche settimana fa, è una pellicola realizzata nel 2004 (e quindi già con quasi un decennio sulle spalle) è stata per me una sorpresa assoluta, non solo per la sua modernità, ma anche per il trattamento riservato a una tematica invero un po’ scottante in cui l’erotismo (profuso a piene mani) diventa però parte integrante di un meccanismo drammatico ad alto tasso di coinvolgimento, che deve molto al thriller psicologico, e che ha il merito non secondario, di sottolineare e confermare, aiutato dalle interessanti invenzioni visive che propone, proprio un cambiamento non solo ideologico, ma anche di costume, impensabile in quelle terre solo qualche anno addietro.
Con il suo cinema infatti (e in particolare con questa sua opera) Kim In-shik sembra voler suggellare e dare una definitiva e irreversibile conferma, a un qualcosa che già da un po’ di tempo traspare in particolare proprio nel “comparto erotico” sempre più in fermento, consegnato alla storia da altri nomi illustri di quella nazione, e cioè la definitiva conquista da parte della donna di un nuovo ruolo (anche più “disinvolto” e specificamente “attivo”) nelle dinamiche sociali della vita e dei rapporti, che Marco Luceri ha definito “il nuovo senso dell’eros di quella cinematografia”. Un qualcosa insomma, che dopo una iniziale maggiore liberazione dei costumi, sembra aver poi prodotto un vero e proprio ribaltamento più che dei ruoli (a mio avviso non ci si può infatti leggere una raggiunta ed appagante emancipazione femminile, probabilmente ancora ben lontana dall’essere conseguita e praticata nella realtà del quotidiano) proprio dei “centri di potere” sessuali, perché - e questa pellicola pone il problema in assoluto primo piano, sembra che ora sia la donna a determinare il corso degli eventi, e che sia lei che è diventata “cacciatrice”, relegando così la figura dell’uomo a quello della “preda”, ma una preda sempre più debole e più sola (e forse per questo destinata alla fine proprio a soccombere).
Ma veniamo alla storia (che a mio avviso già da sola ben chiarisce i concetti sopra esposti), che vede protagonista Jin-su, una scrittrice fallita dal passato oscuro e affetta da un disturbo borderline della personalità che tenta il suicidio dopo aver scoperto che il marito la tradisce. Rinchiusa dall’uomo per questo atto estremo in una clinica psichiatrica, si troverà di fronte, nella struttura, al dottore Seok-won che prende a cuore il suo calvario e tenta di guarirla, ma con scarso successo. Dopo continui andirivieni fra il “dentro” e il “fuori” l’istituto, la donna alla fine viene dimessa dall’ospedale, ma dopo un anno, reincontrerà casualmente proprio il suo antico dottore che l’aveva in cura. I due cominciano così ad approfondire la loro conoscenza con incontri sempre più ravvicinati ed intimi nel corso dei quali però il medico arriverà ad usare la tecnica dell’ipnosi per fare abusivamente sesso con lei, autoilludendosi di poter vivere così una relazione passionale in qualche modo appagante (almeno per lui) e - seppure “indottamente”- persino ricambiata. Le cose però non vanno mai come vorremmo e di questi rapporti consumati durante l’incoscienza di Jin-su ne farà alla fine le spese proprio Seok-won, che lentamente viene risucchiato dentro una dimensione angosciosa e fortemente ansiogena fatta di ossessioni, paure, rimorsi e strane visioni, che lentamente lo porteranno verso il fondo in una conclusione delle cose, che come già era prevedibile in partenza, non potrà che scivolare verso la tragedia.
La porosità del genere a nuove suggestione e l’inedito protagonismo femminile, trovano così la loro sublimazione in questo tutto sommato “torbido” rapporto in cui proprio la femme fatale (figura tipica proprio del thriller, più che dell’eros coreano) finisce per diventare il “disperato” oggetto di un desiderio ossessivo (il possesso del corpo più che del sentimento) che ben presto assumerà la forma di una vera e propria disturbante patologia deviante, a testimoniare proprio quanto l’uomo (in questo caso il dottore) sia ormai diventato incapace (soggezione o paura?) di sedurre e possedere la donna senza ricorrere a pericolosi artifici che ne impediscano reazioni e coinvolgimenti.
Ci troviamo dunque di fronte a un film dalle tinte forti che intreccia fra loro i generi e li supera, mescolandoli insieme con sorprendete visionarietà, per restituirceli in una inedita dimensione, dentro a un melodramma denso, lussureggiante, ossessivo e provocatorio in cui i caratteri dei protagonisti, portati dal regista alle loro estreme conseguenze, sono resi anche visivamente con sorprendente precisione attraverso una struttura complessa e rigorosamente funzionale, tesa davvero a ribadire – come già accennato prima – non solo l’evidente supremazia del femminile sul maschile, ma anche e soprattutto la forza oscura di una “perversione ossessiva” che proprio attraverso il sesso (o meglio l’utilizzo improprio che si fa di esso) finisce per distruggere ogni forma di certezza e di equilibrio, e che per l’uomo si trasformerà davvero in un viaggio senza ritorno che lo trascinerà inesorabilmente verso la dissoluzione
Un film insomma in cui i temi del senso di colpa, della vendetta, della valenza morale delle proprie azioni, trovano proprio sul piano narrativo un’appropriata cornice che pone il risultato molto oltre l’eros, e dove l’antico binomio eros/tanatos trova il suo inevitabile e crudele compimento, anche se - come ho già scritto prima - in questa storia il sesso è semplicemente e solo il tramite (o meglio la cartina di tornasole) attraverso cui i personaggi sperimentano - e alla fine constatano - l’impossibilità di vivere l’autenticità dei sentimenti, il calore dell’amplesso e la complessità interdipendente della comunicazione insita nelle relazioni umane quando però condotte con autenticità e compartecipazione.
Kim In-shik coordina così il percorso narrativo della progressione della storia, affidando alle alterazioni della mente il senso ultimo del vissuto di tutti i personaggi coinvolti, il tutto ben reso da uno spiccato uso del montaggio discontinuo, che la macchina da presa rende ellitticamente disturbante.
Parlavo prima delle sorprendenti invenzioni visive, dovute all’estro di una composizione davvero inusuale: alterazioni della percezione rese palesi dalla sovrapposizione delle immagini e dalle divergenze della messa a fuoco, oggetti che si muovono in uno spazio quasi surreale, sussulti improvvisi della cinepresa, riflessi e reiterazioni…. un prezioso ed ispirato corollario di creazioni insomma, davvero molto vicino al terreno della sperimentazione.
La mente umana – sembra infine voler suggerire il film – può davvero produrre un percorso parallelo della vita, che arriva però spesso a un approdo altamente drammatico e senza via d’uscita che, come in questo caso porta all’autodistruzione, alla follia, e persino alla morte.
Davvero sorprendente la resa fotografica affidata alla competente maestria di Kim Woo-hyung ed esemplarmente urticante la colonna sonora di Jang Young-kyu. Ottimi anche Kim Hye-soo e Kin Tae-woo, interpreti appassionati e coinvolti, capaci di mettersi in gioco fino in fondo esponendo impudicamente tutto il proprio corpo.
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