Regia di Filippo Soldi vedi scheda film
Di chi è la colpa della crisi? Possiamo (fingere di) non saperlo, ma non possiamo avere dubbi su chi ne siano le vittime. C’è una tragica evidenza che ce lo mostra, con cadenza quasi quotidiana, da più di un anno a questa parte. Persone che si arrampicano sui tetti, o che si danno fuoco. Che mettono a repentaglio la propria incolumità, oppure decidono di farla finita. La disperazione finisce sempre per rendersi visibile, spesso quando è troppo tardi, con gesti il cui effetto è solo quello di generare dolore e rimorsi. Il documentario diretto da Filippo Soldi ci porta dentro le storie di quella estrema dignità, che è la risposta ultima, individuale e temeraria, alla crudeltà di un sistema economico messo interamente al servizio di pochi potenti. La legge del profitto coincide con il principio del guadagno riservato ad una strettissima cerchia di capi dell’alta finanza, secondo una logica capitalistica che ha superato persino il materialismo dell’era industriale, perché il denaro è diventato un bene fine a se stesso, disgiunto dal criterio della produttività. Le banche ingrassano, mentre le fabbriche chiudono. La forza lavoro si taglia, per spendere meno in salari, e avere più liquidità da accumulare, o da usare per pagare i debiti. Il flusso di contanti, nell’Europa della moneta unica, va in una sola direzione, come trascinato da un gigantesco risucchio. Il mercato si blocca, e il progresso arretra. E nel frattempo le tante piccole pedine vedono i loro portafogli svuotarsi, e le loro attività fallire. Una tempesta spazza via ogni cosa, senza guardare in faccia a nessuno. Occorre ridare un volto almeno a una parte di coloro che, innocentemente, hanno perso tutto, fino ad arrivare a desiderare la morte, e magari sceglierla come unica possibile via d’uscita. I loro parenti parlano di loro, della sofferenza che hanno a lungo nascosto, fino a non poterne più. Si sono sentiti soli, abbandonati dalle istituzioni, e in solitudine hanno deciso di andarsene. È accaduto in tutta Italia, senza distinzione di appartenenza sociale. Operai, artigiani, imprenditori, insegnanti. Quasi sempre padri e mariti. Qualcun altro invece resiste, ed urla, per non rimanere inascoltato, per non fare la stessa fine. Ed alcuni hanno anche il coraggio di fare i nomi e i cognomi dei responsabili di una politica distruttiva del benessere, dello stato di diritto, della convivenza civile. Contro di essi puntano il dito i lavoratori ridotti alla fame, che occupano le aziende, ma anche gli esperti in materia economica, che ci spiegano in dettaglio i meccanismi della corruzione, della connivenza, degli interessi incrociati. Al marciume corrisponde lo strazio di un popolo che sta affondando nella povertà, nell’incertezza, nella depressione. Sull’altro versante tutto tace, e le cose vanno avanti come sempre. Bisogna allora disturbare quella calma, e riempire il vuoto di quel silenzio con tante parole che dicano la verità. Quelle che molti, troppi, si sono tenuti dentro fino all’ultimo. Di loro restano i ricordi dei familiari, i titoli di cronaca, e magari qualche lettera. Ci sono le testimonianze postume di voci che non hanno voluto alzarsi, temendo di fare troppo rumore. Meritano la stessa attenzione di quelle che, invece, preferiscono uscire allo scoperto, rimbombando nelle strade e nelle piazze. Il canto conosce echi sommessi e toni squillanti. È una melodia concitata e confusa. Ma è il suono di una drammatica - e concorde – coralità: una sinfonia sovrastata da una retorica antidemocratica che riempie i media con effetti speciali ed il volume fastidiosamente sparato al massimo.
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