Regia di Wes Anderson vedi scheda film
Lo scrittore del leggendario libro “Grand Budapest Hotel” (Tom Wilkinson) racconta le vicende così come gli vennero narrate dalla viva voce del fattorino(Murray Abraham), immigrato clandestino, diventato proprietario del grande albergo in seguito a una serie di rocambolesche vicende capitategli negli anni’30, quando era “garzoncello” del vecchio concierge Gustave H (Ralph Fiennes).
Grand Budapest Hotel, ovvero Wes Anderson 2.0. Con la pellicola dedicata all’albergo di Zubrowka, la poetica dell’autore cinematografico più riconoscibile in circolazione si fa meno estrema che altrove. Anderson esce da quell’aura di autoreferenzialità che ha spesso contraddistinto i suoi lavori precedenti e comincia a narrare storie non solo per sé, ma anche per un pubblico altro. L’autore più indie di tutti, dunque, pare avvicinarsi (poco, ma si avvicina) ad un pubblico mainstream. Per chiarezza: Anderson non abbandona i colori patinati, la divisione in capitoli, gli attori storici, i movimenti di macchina fantasmagorici o la narrazione compulsiva, ma ad essi aggiunge una trama differente (ispirata non ad un romanzo, ma ad uno stile di narrazione, quello di Stefan Zweig). L’omaggio al grande romanziere austriaco di inizio ‘900 fa parte di un ossequio più generale al Vecchio Continente, in particolare alla zona Mitteleuropea, alla sua storia, ai suoi paesaggi (artificiali al punto da richiamare un altro poeta dell’immaginifico come George Méliès), al suo clima gelido, alla sua fantastica arte pasticcera, alla ferita nazista, all’incomparabile architettura dei suoi palazzi, alla magia della sua aristocrazia.
Tornando all’analisi del film, ed in particolare al suo stile di narrazione, pare quasi che il minimalismo ammirato altrove scompaia per far spazio all’ipertrofia, arricchita peraltro da una serie di affastellamenti narrativi che spiazzerebbero anche chi si mangia abitualmente a colazione gli arzigogoli cronologici di Christopher Nolan o Quentin Tarantino: giorni nostri, poi 1985, 1968, 1932, un po’ di palleggi tra queste ultime due date, e poi viaggio di ritorno, per giungere laddove si era partiti. Sul piano della struttura narrativa Grand Budapest Hotel vale un trattato di sceneggiatura, per quel magnifico gioco di scatole cinesi fatte di analessi progressive cucite insieme dalla voce fuori campo.
In Grand Budapest Hotel c’è tantissima carne al fuoco, molta più di quanto solitamente ne propini Anderson. L’unità spaziale (oltre alla già citata unità di tempo) si allarga e soprattutto la storia ha una sua tensione che non è più solamente intrinseca ed intimistica, ma arriva a somigliare a qualcosa di convenzionale, come un film thriller o una spy story, (quanti altri film del regista possono essere tranquillamente inquadrati nella divisione di generi usualmente condivisa?).
Ma non è solo il modo di narrare o la funzionalità delle scelte estetiche ad affascinare. Colpisce decisamente il rapporto dei protagonisti. Gustave e Zero, da perfetti sconosciuti, hanno una fiducia ed una stima reciproca (in una parola: un sentimento) che fa da contraltare a rapporti di parentela completamente evanescenti o addirittura economicamente calcolati a tavolino (come quelli tra l’anziana Céline – un’irriconoscibile Tilda Swinton – ed il figlio Dmitri – Adrien Brody). La collaborazione che i concierge di tutta Europa stipulano con immediatezza (nello splendido gioco di montaggio che caratterizza la presentazione della Confraternita – capitanata dal solito Bill Murray) ne è la conferma. Chiara ed inequivocabile, qui Anderson non si evolve ma rimane fedele alle sue usuali posizioni, la dichiarazione di guerra ai rapporti familiari convenzionali, topos riconoscibile anche in altre opere del regista texano.
Nello stellare cast (in cui figurano anche Owen Wilson, Jude Law, Harvey Keitel, Ed Norton, Willem Dafoe, Jeff Goldblum), contribuisce un po’ anche l’Italia grazie al volto inimitabile della caratterista Gisella Volodi, che ha solo due pose ma intensissime.
Un film caleidoscopico, corale, matto e frenetico. In odore di (una caterva di) Oscar. A prescindere meritati!
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