Regia di Wes Anderson vedi scheda film
Storia d’amicizia, d’amore e avidità.
Un viaggio nostalgico nel xx secolo sul quale sventolano allegre le storie surreali e colorate di un manipolo di burattini viventi, abitanti del cartonato mondo di Wes Anderson.
Durante gli anni 20 Monsieur Gustave H (Ralph Fiennes) è il concierge – gerontofilo playboy del Grand Budapest Hotel, un albergo esclusivo situato tra i monti della nazione immaginaria di Zubrowka, che diventa ricco grazie all’eredità di una sua anziana, ricchissima amante. Ma questa è la storia narrata da Zero Moustafa (F.Murray Abrham) l’allora Lobby boy (Tony Revelori ) che ne divenne proprietario alla morte di Monsieur Gustave, a un giovane scrittore di successo ( Jude Law) negli anni ‘70. Ma questa è la storia narrata nel libro dello scrittore (Tom Wilkinson), intitolato The Grand Budapest Hotel e letto da una ragazza ai giorni nostri.
Acrobazie del tempo che fu.
Lo stile è sempre riconoscibile. Il passato è ricomposto nell’usuale simmetria delle inquadrature dense di particolari e dai colori pastello che formano l’habitat naturale delle storie degli allegri personaggi freak di Anderson, tanto irreali quanto mossi da genuine pulsioni umane.
Un film pop up che si apre a scoprire mondi fasulli sospesi tra la fiaba e la ricostruzione di un sogno che si aggrappa alla la natura evocativa degli oggetti per rendersi reale. La fotografia di Roman Coppola acquerella la casa di bambole palesemente finta del Grand Budapest Hotel, connotandone l’ambientazione storica nel quale l'albergo è collocato e il gusto per lo stile del passato.
Scene a camera fissa, istantanee minuziose contenute nei margini del quadro che da sole raccontano un mondo. E poi I carrelli laterali, movimenti di macchina che giocano con l’inquadratura e che nel movimento scoprono all’interno della stessa elementi di sorpresa. Il triplo flashback della storia del narratore di storie, avanti e indietro nel tempo, è una riflessione sul cinema stesso che non cita, piuttosto rielabora sensazioni derivate da un déjà vu cinematografico anch’esso vintage: l’Overlook silenzioso dove i fantasmi presa carne, si crogiolano in un tedio intellettuale; la grande fuga del cinema escapista guerresco ridefinito nello sberleffo della rielaborazione dei tic d’autore; il cinema muto anni ‘20 delle comiche e i fondali disegnati sono combinati con gli elementi tipici della poetica del regista texano.
Rispetto agli eterei film precedenti ci sono elementi nuovi nel lavoro del regista. Grand Budapest Hotel è un film compatto, dal ritmo sostenuto e inserito tra le maglie della realtà storica scandita dalle date degli avvenimenti del ‘900 benché anch’essa sia sbeffeggiata in uno scimmiottamento irriverente.
E poi la morte. Essendo una storia ficcata nella Storia, quella del ‘900 è una storia intrisa di morte. Anderson se da una parte sporca la tavolozza dei tenui colori che animano i personaggi, dall’altra acquista quella nota drammatica, dissonante con il resto della sua opera che riverbera melanconicamente come l’eco della fine di un’epoca. Con il consueto stile iperrealistico e sottilmente grottesco, si narra dell’imbarbarimento della natura umana, della natura effimera del bello la cui decadenza coincide con l’inaridirsi dell’anima degli uomini.
Non solo la morte violenta è infatti incarnata dai loschi figuri, parenti serpenti della defunta, freak anch’essi ma più dark (più burtoniani) che mai stavolta e su tutti spicca la parte brutale di Willem Dafoe, killer dai canini canini, che rincorrono il congerie per accaparrarsi il mcguffin del film: un quadro. La morte è proprio relativa ad una Belle Époque fatta di stile e buone maniere offese dalle barbarie della guerra. Monsieur Gustave attraversa la sua vita con una massima che la vita gliela salverà, “si gentile con le persone ed esse ti cadranno ai piedi”. O qualcosa di simile. I dialoghi arguti, taglienti, sono anch’essi forma di un passato ormai decaduto. La decadenza della forma, della Belle Époque, è ritratta in una forma seducente, raffinatissima, quasi a accentuarne l’aspetto nostalgico.
Grand Budapest Hotel è un concentrato di tutte le potenzialità evocative del cinema. Ogni aspetto tecnico è ai massimi livelli ( si pensi a Milena Canonero disegnatrice dei bellissimi costumi o la colonna sonora di Alexandre Desplat), mentre la storia contiene tutte le sfumature dell’emozione umana: il romanticismo e l’avventura, l’azione e l’introspezione. Riesce ad essere divertente e raffinato ma più articolato nella storia benché la stessa sia trattata con l’ironia del grande affabulatore che seriamente non si prende sul serio e impone lo stesso disimpegno ai suoi attori, un manipolo di grandi, fedelissimi amici/estimatori (Ralph Fiennes, F. Murray Abraham, Mathieu Amalric, Adrien Brody, Willem Dafoe, Jeff Godlblum, Jude Law, Tilda Swinton, Bill Murray, Saoirse Ronan) pronti a qualsiasi trasformazione per apparire, anche in piccole parti, nel grande affresco storico del regista più europeo d’America.
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