Regia di Wes Anderson vedi scheda film
Ci aveva lasciati, nel 2012, con le avventure dei piccoli Sam e Suzy in Moonrise Kingdom e ci aveva conquistati (quasi tutti). Oggi, a distanza di soli due anni, Wes Anderson torna e ci porta tutti tra le montagne sperdute ed innevate dell'immaginaria Repubblica di Zubrowka e, più precisamente, all'interno di uno dei più prestigiosi e leggendari hotel dello stato: il Grand Budapest Hotel. Lì, con l'intenzione di seguire le vicende di alcuni personaggi assai strampalati e surreali, il regista statuniteste ci racconta una nuova avventura, tra un omicidio e una lotta per un patrimonio di famiglia.
In bilico tra i generi e ricco di stranezze e curiosi eventi, The Grand Budapest Hotel è il cinema di Wes Anderson all'ennesima potenza. Leggere (ma prima vedere) per credere.
Con una struttura narrativa a matrioska, The Grand Budapest Hotel si svela attraverso un triplice racconto, uno interno all'altro. Al livello più pronfondo, la trama vera e propria:
1932. Gustave H è il profumato e ammaliante concierge del Grand Budapest che, tra le varie mansioni, ha il compito di garantire un sereno e piacevole soggiorno alle ricche e anziane donne che frequentano l'hotel.
In seguito alla morte per omicidio di una di queste donne, Gustave prenderà parte alla battaglia per il patrimonio di famiglia, rubando un dipinto di inestimabile valore (appartenente a lui, secondo il testamento di Madame D.) e diventando il principale sospettato dell'omicidio della vecchia donna.
Tra scenari fantastici e personaggi memorabili, Wes Anderson, con The Grand Budapest Hotel, firma l'opera più densa e ricca della sua filmografia, narrativamente e stilisticamente parlando. Nessun freno, questa volta non c'è limite all'immaginazione del regista statunitense. La storia, ricca d'azione, non lascia un attimo di respiro allo spettatore che, catapultato all'interno dell'hotel, indietro di circa 80 anni, è costretto a mantenere lo sguardo incollato sul grande schermo, per poter seguire le vicende della fuga di Gustave H e di Zero.
Come da tradizione, quindi, Il movimento e la frenesia dell'avventura risultano essere le componenti fondamentali, quelle che danno linfa vitale alla pellicola e permettono non solo di innescare il racconto, ma anche di mantenerlo su di giri per tutta la sua durata; non è una novita nel cinema di Wes Anderson: basti pensare a Il treno per il Darjeeling o al penultimo Moonrise Kingdom che, grazie al sottotitolo (Una fuga d'amore), suggerisce una struttura narrativa molto simile a quella di quest'ultimo lavoro. In The Grand Budapest Hotel, però, tutto è portato all'esasperazione, riuscendo a concentrare, in poco più di un'ora e mezza di durata, una quantità sterminata di colpi di scena, tra sparatorie, omicidi, fughe e corse sullo slittino. Gli stessi generi vengono confusi e mescolati fra di loro, aumentanto notevolmente il senso di frenesia della vicenda: si passa continuamente, senza particolari avvertimenti, dall'azione al dramma, dalla commedia al racconto noir, e così via.
The Grand Budapest Hotel è un blocco compatto che, fin dal suo inizio, ci lascia col fiato sul collo, facendoci divertire ed emozionare, senza risultare, però, troppo stucchevole o pretezioso.
È forse nel riproporre le solite soluzioni che il lungometraggio trova il suo punto debole. Nonostante la bellezza dell'immaginario fiabesco e del racconto frenetico e surreale, infatti, The Grand Budapest Hotel non porta nessuna grande innovazione nel cinema di Wes Anderson e, per certi aspetti, si presenta meno fresco e originale, posizionandosi, a mio avviso, in un gradino più basso rispetto a Moonrise Kingdom che, grazie anche alla sua componente romantica, rappresenta l'opera più riuscita dell'autore statunitense.
L'amore per la centralità, per i colori pastello, per le geometrie degli scenari e degli interni trovano, in The Grand Budapest Hotel, la loro massima realizzazione. Non c'è sequenza che venga lasciata al caso, tutto è costruito e studiato nei minimi dettagli, conferendo alla pellicola un'artificialità e una surrealtà in perfetta sintonia con il racconto.
È tutto un giocare con le forme e gli spazi: i leggeri movimenti di macchina laterali che aggiustano l'inquadratura, andando a posizionare quasi sempre il soggetto in primo piano (o sullo sfondo) in linea con l'asse centrale del quadro; la profondità di campo; le inquadrature ribassate; le carrellate ottiche e la scelta stessa di girare la quasi totalità del film in 4:3.
L'uso dei colori, come già accennato prima, è una delle caratteristiche fondamentali del cinema di Wes Anderson. Qui, come da programma, troviamo un'esasperazione della gamma cromatica, a partire dal rosa confetto dell'Hotel stesso, fino ad arrivare agli interni e alle divise e agli abiti dei personaggi.
Il montaggio frenetico aiuta la pellicola ad accellerare e a sfrecciare nel turbine delle sue vicende, alla stessa velocità dell'inseguimento su slittino di Gustave e Zero.
Il cast stesso, ricco di nomi importanti, è in linea con le intenzioni dell'autore: Ralph Fiennes è perfetto nel ruolo di Gustave H, come lo sono anche Adrien Brody nei panni di Dimitri, figlio della defunta Madame D (Tilda Swinton) e Willem Dafoe, nei panni dell'inquietante guardia del corpo.
The Grand Budapest Hotel è tutto questo, e forse anche qualcosa in più. Nel complesso, la sensazione è che, questa volta, Wes Anderson non abbia voluto fermarsi, spingendosi oltre e andando a svelare i limiti stessi del suo cinema. L'ultima pellicola del regista statunitense mette tanta carne alla brace, forse troppa, senza però andare alla ricerca dell'innovazione. Nonostante ciò, The Grand Budapest Hotel riesce ad intrattenerci gradevolmente e a farci passare un'ora e mezza tra le meraviglie e le stranezze della Repubblica di Zubrowka.
Il divertimento e il piacere sono assicurati.
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