Regia di Wes Anderson vedi scheda film
Il cinema di Wes Anderson è un albergo. Il concièrge è alla reception, il garzoncello tuttofare ha occhi attenti e discreti per tutto: ogni cosa è al suo posto, ogni cosa è composta nella maniera visivamente meno naturale possibile. Il Grand Budapest del titolo è inequivocabilmente (anche) un albergo, l’ambientazione più naturale pensabile per un film di Wes Anderson, quella più congeniale alla sua poetica di (non)luoghi cromaticamente artificiali ma profondamente accoglienti e di famiglie elettive disfunzionali ma intimamente amorevoli (qui il concièrge Ralph Fiennes “adotta” il garzoncello Tony Revolori, e pur essendo volti poco familiari all’opera omnia del Nostro s’inseriscono immediatamente nella sua fantasiosa macchina-minimondo). Il Grand Budapest è soprattutto l’espediente di una narrazione affabulatoria, ineditamente innervata di sangue e carne (dita mozzate, corpi trafitti), potenzialmente inesauribile: l’amore di Wes per l’arte del racconto (sempre arte del sogno, pur razionalizzata in inquadrature simmetriche) è sincero, cercare il fine delle sue creature è controproducente perché nella loro ricercata stilizzazione s’attorcigliano, sulla linea assurdamente retta della perfezione s’imbrigliano di disagio, nella costruzione di ambienti-plastici si animano di emozioni nostre. Nonostante i suoi personaggi esprimano l’intera palette sentimentale guardando in macchina, sebbene scendano una rampa di scale con la ritmica automatica dei pupazzetti danzanti con le calamite ai piedi. Il Grand Budapest sorge rosa pastello sul cucuzzolo dell’immaginaria repubblica di Zubrowka, è raggiungibile con una funivia che ben rende il distacco dal mondo. Invece dal mondo parte e al mondo ritorna, perché il nuovo film di Wes è, appunto, innanzitutto, una storia: contenuta in un libro, filtrata attraverso le parole dello scrittore, che ricorda a sua volta il racconto del protagonista. Il quale fu un volenteroso garzoncello tuttofare, strinse amicizia con il concièrge frivolo ma in fondo umanissimo, sposò una giovane fornaia coraggiosa con una voglia a forma di Messico sulla guancia, ereditò l’albergo e ci soggiornò ogni tanto dormendo sempre nel minuscolo alloggio del personale. Quello che accade nel mezzo è (il romanzo di) una fuga rocambolesca che amplia, complica ed esplicita il motivo escapista: centrale in Fantastic Mr. Fox, motore di Moonrise Kingdom. Amare o odiare, guardare o lasciarsi entrare: nelle case-hotel dove ci sentiamo inspiegabilmente, naturalmente a nostro agio.
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