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Mary e Martha

Regia di Phillip Noyce vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Mary e Martha

di degoffro
5 stelle

“Lo sapevate che se si prende ogni singola persona uccisa in un attentato terroristico in tutto il mondo negli ultimi 20 anni, aggiungi ogni vita perduta in Medio Oriente dal 1967, la guerra dei sei giorni, e aggiungi a questo ogni singola vita americana persa in Vietnam, Corea, e in ogni intervento americano da allora - Iraq, Afghanistan, se prendi tutte quelle vite e le moltiplichi per due avrai il numero di bambini che muore di malaria ogni anno?”

 

 

Phillip Noyce, specialista in film d’azione e thriller spesso rutilanti (il suo titolo migliore resta ancora “Ore 10: calma piatta”), ama ogni tanto prendersi una pausa con prodotti più impegnati. Dopo l’interessante ma convenzionale “La generazione rubata” (2002), dal romanzo di Doris Pilkington, a sua volta ispirato a una dolorosa pagina della storia australiana e l’innocuo “Catch a fire”, ambientato nel Sud Africa dell’Apartheid, è la volta di questo “Mary and Martha”, televisivo in ogni senso.

Non aiutano molto né la schematica e spenta sceneggiatura del solitamente brillante e acuto Richard Curtis (“Quattro matrimoni e un funerale” e “Il diario di Bridget Jones”) chiaramente a disagio con una vicenda non nelle sue corde e dalle poco controllate derive lacrimevoli, né le interpretazioni piuttosto ordinarie del due volte premio Oscar Hilary Swank (di nuovo in Africa dopo l’apprezzabile e più riuscito “Red dust” di Tom “Il discorso del re” Hooper ma qui adagiata su espressioni di circostanza) e di Brenda Blethyn (fin troppo sacrificata in un ruolo senza sorprese), nei panni di due madri che, dopo aver perso i rispettivi figli in Africa per la malaria, decidono di darsi da fare per iniziare la loro personale battaglia volta a sollecitare un più deciso e consapevole intervento al riguardo da parte del Senato americano. Purtroppo Noyce e Curtis scelgono la strada più ovvia e semplicistica, così il film registicamente è quanto di più pigro e scontato si possa immaginare, narrativamente è frettoloso, banale e ben poco credibile, al di là del tema socialmente scottante e da dibattito, trattato però con disinvolta incompetenza ed affossato da un sentimentalismo inappropriato e posticcio.

Il prologo è fin troppo lungo e monotono: mamma Swank, ricca donna americana, scoperto che il figlio George, a scuola, è vittima di bullismo, dopo aver ripreso maldestramente in classe i teppistelli responsabili, aumentando in questo modo l’imbarazzo del figlio, anziché affrontare di petto il problema non trova soluzione migliore che fuggire, prendendosi con il ragazzino una vacanza di 6 mesi in Africa per quella che dovrebbe essere “la più grande avventura della nostra vita, come in un film fantastico.”, mentre mamma Blethyn vede partire il figlio Ben per il Mozambico come insegnante volontario. Segue dramma improvviso, lacerante e violento per entrambe le donne. Quindi, dopo essersi occasionalmente conosciute, constatata la gravità e la diffusione della malaria in Africa, nasce in entrambe il desiderio di rendersi utili, perché “che cosa può fare una mamma senza un bambino?”. Una donna si trasferisce in pianta stabile come volontaria in Africa, dimenticandosi di avere un marito, l’altra, divorata da un forte senso di colpa, dopo uno scontro con le amiche di pilates che discutono animatamente se sia meglio farsi regalare dal marito una Mercedes o una Lexus (scenetta, a dire il vero, pacchiana nell’evidenziare con enfasi la vuota superficialità di una società viziata che ignora i veri problemi e la conseguente presa di coscienza da parte della protagonista), decide di sfruttare le conoscenze a Washington del padre (partecipazione fugace di James Woods, impressionante la sua sintetica analisi del fenomeno malaria con numeri da paura) per smuovere le ristagnanti acque politiche sul tema. In fondo “la politica è come una torta: è solo questione di come la tagli.” Segue toccante partecipazione al congresso, conseguente commozione generale con le foto di tante piccole vittime della malaria (momento ricattatorio ai limiti dell’imbarazzante), opinione pubblica pronta a mobilitarsi, riappacificazione familiare per il personaggio della Swank (non solo tra padre e figlia, sancita da una delicata stretta di mano, ma anche tra moglie e marito, troppo a lungo trascurato) e le due eroine di nuovo in viaggio verso l’Africa, accolte come autentiche salvatrici della patria (il che, francamente, è quasi ridicolo).

Tutto come da copione, con una linearità e prevedibilità stucchevoli e favolistiche, un buonismo forzato, un totale distacco dalla durissima realtà magicamente trasformata in improbabile lieto fine, senza peraltro che un barlume di emozione e indignazione possa palesarsi. Non bastano qualche numero shock o un paio di riprese che si vorrebbero sconvolgenti per descrivere una situazione ben più complessa e tragica. Didascalico e superficiale, con il grosso limite di risultare anche ingenuo e fasullo. Ed è un vero peccato che Noyce non sappia sfruttare al meglio il talento di due attrici, altrove molto intense e coinvolte, se non nel bel finale (unico momento autentico) quando, soddisfatte di quanto compiuto, le due amiche fanno un prevedibile eppur commosso bilancio della loro vita con la classifica delle tre cose più belle che sono loro capitate. Produce, tra gli altri, ma non si direbbe, la meritoria HBO per cui la Swank aveva già girato nel 2004 “Angeli d’acciaio”, incentrato sulla lotta per il diritto al voto delle donne agli inizi del novecento. Nella versione trasmessa in Tv, Hilary Swank è doppiata da Laura Lenghi (già voce dell’attrice in “Million dollar Baby”, “Black Dahlia” e altri film), Brenda Blethyn da Caterina Rochira.

Voto: 5

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