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L'anima attesa

Regia di Edoardo Winspeare vedi scheda film

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La recensione su L'anima attesa

di OGM
8 stelle

Qualcuno aspetta Carlo, nel cimitero di Alessano, un piccolo comune della provincia di Lecce. È una presenza discreta e silente, adesso, ma che in vita si è profusa in parole accorate, in pressanti inviti rivolti all’uomo, avendo sempre in mente Dio. A suo modo, Don Tonino continua a parlare, con la voce interiore delle anime belle. E Carlo non si rende conto che, dentro di sé, lo sta ascoltando.  Succede sull’autobus, sul treno, sulla via che lo porta al paese natale, a casa dell’amata sorella. È un coro di gente semplice, sofferente o speranzosa, che lo accompagna lungo il viaggio: un padre che fa il pendolare, immigrati africani, giovani pieni di sogni, una donna che ha da poco perso il marito. La verità si divide in tanti bocconi agrodolci, per posarsi sulle labbra di tutti, e diventare un pasto frugale, ma dal sapore intenso, e fraternamente condiviso. Carlo, poco prima, aveva urlato e bestemmiato, al telefono, per una questione di lavoro. Invece ora tace, e a tratti sorride. Il paesaggio, fuori dal finestrino, è semplice e spoglio, vasto e tranquillo come la pace del cuore. La campagna pugliese, fatta di nuda terra rossa, di pietre bianche e olivi selvaggiamente aggrappati al cielo, è il ritratto di una bellezza  naturale plasmata dalla durezza, sfrondata dall’aridità del tempo, però dignitosamente raccolta intorno alla propria immutata generosità. Questo mediometraggio, prodotto da Pax Christi e diretto da Edoardo Winspeare, è un omaggio ad un uomo di fede ed al suo mondo, primitivo e splendido, dall’apparenza composta eppure dall’indole profondamente appassionata: Antonio Bello (1935-1993), vescovo di Molfetta, è il protagonista invisibile del percorso di chi, per un attimo, molla la presa, per dimenticare se stesso e scoprire tutto il resto. Carlo lascia la strada di sempre per seguire un richiamo flebile e familiare. Giunto a destinazione, troverà il consueto nulla dei villaggi contadini, il senso dell’abbandono, un deserto in cui spuntano soltanto i fiori dei ricordi: l’ambiente ideale per accorgersi dell’esistenza delle cose dormienti, che sembrano non esserci, eppure instancabilmente intessono, nell’ombra, i loro meravigliosi progetti di rinascita. Una tomba può essere il luogo più ridente di un giardino, e il corpo di un defunto ritornare alla luce nelle vesti di un bimbo. Sono elementi di un paesaggio che si può guardare, ma che occorre soprattutto sentire. Sono i piccoli indizi visivi della sobria eloquenza del vuoto, che ci lascia liberi di distrarci e pensare ad altro, mentre continua a discorrere di noi, del nostro destino, del nostro dolore e dei nostri sbagli. Ne L’anima attesa il racconto è un tessuto sottile come un velo, impercettibilmente cosparso di emozioni inespresse: la sua trasparenza richiama la limpidezza della povertà, che non pratica l’arte e la retorica, ma si accontenta, giorno dopo giorno, della disadorna poesia che ha tra le mani.

 

“Ero venuto in cerca di te, dopo aver percorso quasi duemila anni a ritroso, nella certezza che mi avresti potuto suggerire i rimedi adatti contro un male oscuro che sta travagliando la civiltà da cui provengo.” (da: Antonio Bello, Nelle vene della storia – Lettera a Gesù, 1990).

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