Regia di Phil Alden Robinson vedi scheda film
Henry Altman (Robin Williams) corre per la propria vita. Il punto è che non sa bene dove andare. Un giovane medico ospedaliero (Mila Kunis), in un momento di rabbia, per dispetto gli ha comunicato che gli restano solo 90 minuti. E Henry ha pochissimo tempo per capire come spenderli. Il remake made in USA del film israeliano Mar Baum (1997) è il tipico esempio di commedia che cerca di trasformare la tensione in sorriso, stemperando il lato grossolano della comicità nella nobile sostanza delle verità estreme. La morte incalza, ed è questo un buon motivo per intraprendere la solita fuga a rotta di collo sulla pista circense del mondo, accelerando claunescamente il ritmo degli eventi, frantumando il dramma in tante piccole, strampalate emergenze da cogliere al volo. La vecchia formula delle comiche degli anni venti si ripropone con lo spirito di sempre, ma appare affaticata, offuscata da un realismo stanco di tornare sui soliti temi della modernità malata (l’incapacità di superare il dolore, la disgregazione familiare). Anche la simpatica e mordace logorrea del protagonista cade vittima di questa perdita di tono, fino a tingersi di nostalgia, e diventare la malinconica citazione di una spensieratezza che non esiste più. Di fronte alla smagata allegria di questo film sentiamo soprattutto la mancanza di quella ironia che, una volta, sapeva trasformarsi in forza d’animo, che non negava, bensì rielaborava la sventura in chiave filosofica. In questo film, purtroppo, le massime esistenziali si fermano al principio tardoromantico dell’amore che è un dono tanto prezioso quanto difficile da ricevere e dare, della speranza che è l’ultima a morire, del non è mai troppo tardi. La saggezza spicciola può rivelarsi comunque un gradevole passatempo, se è confezionata con estro e quel pizzico di intelligente spavalderia che basta a tenerla lontana dalla banalità. Anche qui, è vero, il racconto è dominato dal coraggio di ammettere la gravità della situazione senza prendere la faccenda troppo sul serio; tuttavia la leggerezza dell’approccio sembra più un vezzo formale, imposto dal genere cinematografico, che la conseguenza di una consapevole scelta di prospettiva. Per chi, forse perché dotato della giusta dose di umiltà, riesce a divertirsi anche col poco, col già visto, col prevedibile, questo film ha l’aria di essere il prodotto ideale: modesto e timidamente brillante, nonché affettuosamente imbevuto della disarmante tristezza delle piccole cose e della gente comune. Per tutti gli altri può valere questo consiglio: non aspettatevi nuove idee o grandi emozioni, ma, se volete, disponetevi, con semplicità, ad assistere ad una delle ultime, comunque incantevoli, performance di un interprete genialmente ribelle che ci è rimasto nel cuore. Sulla mia lapide ci sarà scritto: Henry Altman. 1951-2014. Non importano le date. Quel che conta è il trattino.
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