Regia di Stephen Frears vedi scheda film
La scena chiave: il visconte di Valmont si rialza e, senza un motivo apparente, rinuncia al godimento della donna lungamente agognata, dopo averla fatta innamorare di lui. È quello il momento in cui capiamo una semplicissima verità: gli uomini possono cambiare, nessuno è condannato per sempre a restare ciò che è, le forme non sono immutabili. E sotto questo aspetto il film resta per me l’unico a potersi (quasi) affiancare a Barry Lyndon per la capacità di analizzare i rapporti di forza nella società del ’700, ossia del secolo fondamentale nella storia del mondo moderno. Onore a Frears, che alla sua prima produzione hollywoodiana sa disimpegnarsi con grande intelligenza, conservando in qualche modo l’impianto epistolare dell’originale (niente voce narrante, ma spezzoni di lettere che vengono letti dai rispettivi mittenti) e riuscendo a concludere le riprese di un’opera così complessa nel giro di poche settimane (per vincere la corsa al tempo ingaggiata con Forman, autore di Valmont). In mezzo a un parterre femminile da urlo (Close, Pfeiffer, Thurman, senza dimenticare la cara mammina Swoosie Kurtz) Malkovich giganteggia, rendendo assolutamente credibile la repentina umanizzazione di un libertino senz’anima. La sua interpretazione è superba, finissima, ricca di sfumature: trascende il mio controllo.
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