Regia di Germano Maccioni vedi scheda film
Giovanni Lindo Ferretti è una salamandra d'uomo, passato indenne, ed ogni volta rinato, attraverso i fuochi del punk-rock, del comunismo urlato, della malattia, del cristianesimo, fino ad approdare ad una dimensione da focolare che, pur lasciando basiti i fan duri e puri della prima ora, si fa testimonianza della non incasellabilità degli esseri umani.
Il documentario di Germano Maccioni lo mostra nella sua più vivida caratteristica: l'arte affabulatoria mai fine a se stessa, bensì sofferta, ragionata, oseremmo dire pacificata. Ferretti non rinnega il passato, bensì ne opera una rielaborazione con il senno di poi, sì da arrichhirlo e conservarlo nelle teche delle cose preziose.
Tutto ciò che è stato è viatico necessario. Ecco allora gli anni folgoranti dei CCCP, quei canti straniti di ribellione all'inesplicabile caos del mondo, quindi la esperienza dei CSI, con la musica che allarga i propri confini e si espande a toccare altri mondi, altri orizzonti. Poi la malattia, il brusco ritorno alla realtà della vita di tutti i giorni, la lotta che si stempera infine dolcemente nella confortante cornice di un ambiente rupestre e selvaggio. Oggi c'è Ferretti, nella sua campagna, pochi amici, la natura e, infine, i cavalli (già omaggiati , con folgorante intuito, nella Io e Tancredi di Linea Gotica).
Pillole di vita, per qualcuno magari destinate soltanto agli appassionati del genere. Invece, nei discorsi di Ferretti, non è difficile cogliere profondità. Non si tratta delle massime che le rockstar sono abituate a dispensare, in ossequio alla necessità di dover insegnare, di dover stupire. Sono spaccati di vita vissuta, esperienze universali qui ascrivibili ad un uomo che ha vinto e quindi perso, da ultimo accontentandosi di un onorevole pareggio con la vita.
Il valore del documentario sta in questo ostinato rincorrere un senso e, infine, nel trovarlo tra le rughe di un uomo capace di parlare senza troppo ascoltarsi.
P.S. Comunque sì: sono (stato) un fan.
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