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Fedele alla linea

Regia di Germano Maccioni vedi scheda film

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La recensione su Fedele alla linea

di cheftony
8 stelle

Sono stato allevato cattolico e felice. Poi, con l'adolescenza, ho scoperto il mondo moderno e...la vita. Poi non ne potevo più!”

 

Giovanni Lindo Ferretti, ex-cantante celebre fra gli anni '80 e '90 come voce e personalità di spicco dei CCCP Fedeli alla linea e del Consorzio Suonatori Indipendenti (ovvero di due gruppi fra i più originali e meritevoli della musica italiana), è il protagonista di questa pellicola documentaristica ad opera del giovane attore e regista Germano Maccioni; i due si conoscono da anni e l'idea di Maccioni, nata per caso, è quella di restituire al pubblico l'immagine innanzitutto dell'uomo e solo in misura minore dell'artista, eliminando le domande e lasciando che siano le parole sconnesse e pungenti di Ferretti a ripercorrere alla rinfusa fasi e visioni della sua vita.

Una vita segnata cronologicamente da un'educazione cattolica rigida, dagli studi in collegio e dai contatti col mondo esterno come eventi cruciali di non ritorno: Berlino e l'incontro con Massimo Zamboni hanno dato vita ai CCCP e plasmato un nuovo Ferretti, un punk, un poeta, un artista metropolitano proveniente dalla minuscola frazione montana di Cerreto Alpi, nei pressi di Reggio Emilia. L'esperienza catartica in Mongolia ha invece fatto bruciare di nuovo in lui la fiamma ardente per l'allevamento di cavalli e pecore e per la vita ritirata, paesana, di auto-sostentamento e di accudimento che porta tuttora avanti.

 

Analizzo ora un'altra prospettiva, più distaccata e profana: per cosa è ricordato attualmente Giovanni Lindo Ferretti dal fruitore medio? Più o meno si sente sempre dire che faceva musica punk filo-sovietica negli anni '80 (ma sull'immaginario comunista, nonostante la militanza in Lotta Continua, ha sempre avuto prima una percepibile ironia e in seguito un distacco già nelle opere più mature come “Epica Etica Etnica Pathos”), poi ha scalato le classifiche con l'album “Tabula Rasa Elettrificata” con i CSI nel '97 e infine me lo sono ritrovato nel nuovo millennio a sparare sentenze reazionarie, bigotte, anti-abortiste, filo-leghiste in compagnia di Giuliano Ferrara e l'ho mandato a fare in culo con la netta sensazione di esser stato raggirato.

 

A Reggio Emilia il PCI era tutto.”

 

Ok, è il momento di tornare nel vivo della questione. “Fedele alla linea” non tocca mai né le carriere di CCCP e CSI, né gli argomenti che hanno inimicato Ferretti al suo pubblico abituale (ma fraintendente: il suo background è chiaramente tradizionalista e conservatore, col citato terrore dei nonni per le brulicanti sezioni emiliane del PCI), bensì inquadra la sua sfera personale, ascoltando in silenzio le sue confessioni e i suoi dolori, fra il rapporto riappacificato dopo trent'anni con una madre severa e disperata per la carriera del figlio e la relazione con la malattia, la morte e la religione, sempre speranza e mai soluzione.

Proprio la malattia (peritonite, ulcere, tumore ai polmoni) è il tema nocciolo di tutte le “conversioni”, di tutte le riflessioni ferrettiane, che lo portano ad un'inusuale quanto pregnante sentenza: “La malattia è la parte più vitale della mia vita.”.

 

La regia di Maccioni è silenziosa e contemplativa di ogni scorcio, che l'oggetto sia un panorama dei pascoli emiliani o una delle innumerevoli sigarette accese da Giovanni Lindo, ed è assistita da una fotografia eccelsa. Talvolta tutto questo nascondersi lascia campo aperto alla tendenza di Ferretti a salmodiare confusamente, a chiudere col suo tipico sogghigno frasi che vorrebbe non dire ma che, a causa della sua inguaribile logorrea, finisce col chiudere divagando e gesticolando incompiutamente. Ma quegli occhi, quel grosso neo fra le sopracciglia, quel timbro di voce sono ipnotici, magnetici, conferiscono un tono particolare ad un personaggio suo malgrado ritrovatosi prima idolo e poi demolito e destano l'attenzione ad ogni sillaba. In definitiva, quelli di “Fedele alla linea” sono 75 minuti buoni per chi volesse (ri)scoprire il lato umano di un personaggio discusso e talora discutibile e inutili per chi non lo conoscesse abbastanza approfonditamente o fosse così superficiale da bollarlo come stronzo convertito e venduto. Proprio questa selettiva inutilità è forse il difetto più grande del film, che relega le intenzioni del bravo Maccioni al rango di semplice omaggio che non sposta di una virgola le posizioni di partenza.

 

Il sottofondo musicale? Non delude assolutamente. Vengono riproposte le migliori canzoni di CCCP Fedeli alla linea (“Mi ami?”, “Valium Tavor Serenase”, “Io sto bene”, “Annarella”, “Depressione Caspica”) e CSI (“Forma e sostanza”, “In viaggio”, “Cupe vampe”), provenienti da brevissimi filmati d'epoca o da esibizioni recenti di un Ferretti dimesso e distaccato, accompagnato da chitarra acustica e violino.

Ma a chiudere, ai titoli di coda, arriva “A tratti”, che attacca direttamente verso la sfumatura finale della canzone con le frasi più adatte: “Se tu pensi di fare di me un idolo lo brucerò / Trasformami in megafono, m'incepperò / Cosa fare, non fare, non lo so / Quando, dove, perché riguarda solo me...”. Non fatene un idolo. *** e ½

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