Regia di Darren Aronofsky vedi scheda film
Quando si parla di Peplum viene quasi automatico pensare al cinema classico. A qualcuno verrà alla mente lo spettacolare “La tunica”, a qualcun altro il magniloquente “Quo vadis?”, ad altri ancora i mitologici “Ben Hur” o “I dieci comandamenti” (specie nel remake del ‘56).
Darren Aronofsky, autore segnalatosi altrove come geniale creatore di mondi visionari, decide di riattualizzare uno dei generi in cui maggiormente si sente l’odore di naftalina, ipotizzando che la potenza della computer grafica e un cast di acclamati divi internazionali potessero ovviare all’assenza di una giusta aderenza filologica e di una crew tecnica all’altezza.
Complessivamente l’assenza di costumi adeguati ed una fotografia quasi “televisiva” (elementi basilari nelle opere citate di DeMille, Wyler o LeRoy) inficiano l’operazione e di conseguenza ognuno degli (indubitabili) buoni propositi. Più in generale, il risultato di “Noah” è infausto perché tutto è fasullo, approssimativo, dozzinale. Realizzare un kolossal biblico significa in primis dover riportare l’austerità e la magia del racconto: la pessima aderenza all’originale, celeberrimo, plot letterario, è un handicap insanabile per l’operazione nel suo complesso. Lungo più del dovuto, squilibrato nella distribuzione delle scene (troppo prolisso talvolta, estremamente sbrigativo in circostanze che invece richiedevano maggiore approfondimento), nonostante un cast stellare ed un budget spropositato, il film appare come un clamoroso flop.
Aronofsky riduce il tutto ad un’interpretazione soggettiva, frutto di una visione personale. Forse, a giudicare dalla bontà di “Requiem for a dream” o di “Cigno nero”, il regista si trova maggiormente a suo agio con “sceneggiature originali” (per la dirla come l’Academy), mentre quando si tratta di riportare, o magari riattualizzare, elementi che appartengono strettamente ad una memoria collettiva (anche filmica) ben salda, la sua indole visionaria non paga alla stessa maniera.
Artificioso in ogni sua parte, si assiste ad un’opera astratta quando c’era un bel po’ di concreto da rappresentare. La storia di Noè e della sua arca è come se fosse ambientata a Narnia, con un Matusalemme che fa il verso a Gollum, pianisequenza degni di Google Maps, vegetarianesimo buttato lì e soprattutto dei buffi transformers in pietra (lavica) a dare quel tocco di irrichiesta originalità, al punto che per tornare allo spirito ontologico dell’Arca di Noè quasi pare più sensato andarsi a rivedere la commedia con Steve Carrell “Un’impresa da dio”. Anche il cast pare del tutto inadeguato, in particolare nella figura dei due protagonisti (ipertrofico lui, monocorde lei).
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