Regia di Darren Aronofsky vedi scheda film
La macchina da presa percorre il creato, lanciata in carrellate su lirismo ad archi. Il punto di vista non è quello dei serpenti o degli uccelli, bensì di quell’impalpabile voce che li richiama all’arca, alla salvezza, alla vita. Aronofsky è il creatore, e come il Creatore non può rispettare il senso della misura, il limite umano, la rinuncia alla sovrabbondanza nella sua messa in scena di una parte della Genesi. Delirio di onnipotenza? Sicuramente, e i punti in comune con il cinema di Mel Gibson sono immediatamente identificabili nell’adozione di quel punto di vista. Ma da quell’assunto, in Noah discende poi un diluvio universale di codici, postulati, forme, sottotesti e grammatiche tale da farci pensare - un attimo prima della fatidica, in questo caso doverosa, rinuncia spettatoriale - a una vera e propria Genesi del linguaggio cinematografico.
Noè, con moglie e tre figli maschi, si muove in un mondo nel quale l’intransigente morale cristiana sposa l’epica degli eroi e dei giganti, l’immaginario fantasy tolkieniano incontra la mistica jedi, la cosmologia contemplativa di Malick fa a pugni con deliri magici e trip visivi a matrice jodorowskiana, mentre il (neo)peplum digitale appiattisce il tutto su una magniloquente bidimensionalità a sonorità ammiccanti. È a questo punto che entra in gioco la Creazione, restituita in una sorta di “passo uno digitale” che costituisce il momento più alto dell’intera operazione: un momento di cinema nel quale vengono convocati i linguaggi dello spot, del videoclip e dell’animazione d’autore, perché sull’arca audiovisiva di Aronofsky c’è (fortunatamente) posto anche per loro.
La fedeltà al testo non abita qui, e nemmeno sarebbe giusto ci abitasse. In questo Noè scorrono potenti morali ecologiste e animaliste, affiancate a un’ottusa avversione per l’uomo: il patriarca salva i fiorellini e preserva gli animaletti, ma uccide a sangue freddo i suoi simili, interprete privilegiato del Dio punitivo del Vecchio Testamento. «Il tempo della pietà è passato. Ora comincia il nostro castigo». E ancora, rivolto al Re Tubal-cain: «Non c’è scampo per te e la tua razza». Campione di integralismo cristiano, ci traghetta in un racconto sovrabbondante, monumentale (perlomeno nelle sequenza del diluvio) e logorroico, chiuso in un crescendo da pubblicità progresso culminante in un arcobaleno talmente eccessivo da muovere a compassione. C’è anche questo, nel trionfo dell’hybris di un autore capace di guardare in alto e sprofondare in basso con la stessa disinvoltura. E nello stesso momento.
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