Regia di Dean Francis vedi scheda film
L’antropologo Robert Eisler in Uomo Lupo (Londra, 1948) sostiene che nel passaggio dalla dieta erbivora/frugivora a quella carnivora risieda l’atto di nascista dell’istinto sadico e violento dell’uomo, unico animale in natura a predare la sua stessa specie.
Nella sconfinata landa desertica australiana, un perfetto non-luogo ageografico, dalla mappatura incerta e quasi intima, a misura di individuo, piuttosto che il classico locus horridus – qui meglio locus deserticum, da deserere, abbandonare, essere isolato – nasce, si sviluppa e finisce la parabola infernale dei quattro protagonisti. Fin dall’inizio Dean Francis ci aiuta a definire i personaggi e il loro sistema relazionale ed emotivo. Con una facilità incredibile, e senza scadere nel manuale di regia semplificata, Francis ci mostra, con una certa pulizia della scena, del montaggio e dell’inquatura non solo narrativa ma anche evocativa, come la coppia Bob Morley/Sophie Lowe sia passionale, sanguigna, libertina e socievole – al risveglio di Morley in tenda scatta subito la copula – mentre la coppia Xavier Samuel/Georgina Haig, benchè in una tendina separata, sia più pudica e più problematica – tant’è che sentendo i gemiti di piacere provenienti dall’altra tenda la ragazza tenta di replicare con il suo fidanzato che le risponde girandosi dall’altra parte.
Non solo: durante l’incontro/scontro con il road train del titolo le coppie cambiano. Georgina Haig sente attrazione per il virile e fallico amico del suo ragazzo e lo sostiene nella scelta infelice di inseguire il grosso autocarro che li ha tamponati. Mentre Sophie Law, contraria all’inseguimento, si avvicina a Xavier Samuel anche lui impaurito dalla situazione. A complicare il tutto l’antipatia crescente di Samuel verso la Law, colpevole di lascivia e di aver generato imbarazzo nella sua fidanzata. Tra i due amici, ovviamente, come da copione, tutto gira benissimo, perché la sottotraccia omoerotica ci ricorda che tra maschietti, una volta superata l’invidia del pene non si gioca più a chi piscia più lontano e ci si accetta nei ruoli che il branco ha deciso.
Come in un altro bellisimo e ferale horror, geograficamente agli antipodi, come Haute Tension (2003), l’irruzione della motruosità avviene in un momento topico, di poco successivo o anche contemporaneo ad un’azione sessuale. Arriva e scombina l’ordine precedente, generando nuove tensioni, nuovi legami, capovolgendo i rapporti di forza e di amore, “abbandonando” infine, da deserere, l’individuo a se stesso, con unico arpiglio la propria istintività. Qui, nello specifico, un grosso road train, diabolico alla stregua di quello di Duel (1971) o di altre macchine infernali, senza autista e comunque autonome e pure pensanti, arriva da lontano stimolando subito la loro euforia che man mano che si avvicina si trasforma in perplessità fino a diventire vera e propria paura quando il grosso muso dell’autocarro li tampona. Da questo momento ognuno tira fuori ciò che è realmente: Bob Morley, corpo erotico mezzo nudo per tutto il film, spregiudicato come già sappiamo essere, spavaldamente ingrana la marcia e si lancia ad inseguire il misterioso veicolo; Xavier Samuel piagnucola e si agita poco virilmente – da notare che mentre il personaggio-erotico di Morley tende a denudarsi nel corso della pellicola, quello di Samuel tende a coprirsi; la sua ragazza, Georgina Haig, invece si trasforma in una scatenata teppista di strada; mentre la Law, apparsa come una sfrenata ninfomane, razionalizza e cerca di dissuadere il proprio boyfriend dall’inseguimento.
Travolti successivamente dallo stesso road train tutto capitola e i vecchi rapporti di amicizia e amore sembrano solo apparenze di sopravvivenza. E si scatena l’inferno. C’è qualcosa infatti, dentro il cargo dell’autotreno che rende pazzo chi vi entra a sbirciare. Sul cofano del camion c’è una piccola statua di Cerbero, il cane a tre teste, e in diversi momenti del film, il montaggio ci inserisce rapidamente tre teste di un canelupo-cerbero. Forse rinchiuso nel camion? Fatto sta che, tra il vecchio conducente del camion, che apparirà poco dopo l’incidente, e l’incontro tra Bob Morley e il misterioso carico nascosto nel cargo si ha subito il sentore che là dentro ci sia qualcosa di diabolico.
Il film prosegue, a volte incerto come se non sapesse più cosa dire, snocciolando un incubo dietro l’altro, adottando l’estetica e la modulazione narrativa di un tipico e non stupido horror carnale, dove ciò che conta non è tanto l’aspetto gore e splatter, le frattaglie o gli sbudellamenti, quanto il coinvolgimento del corpo e della carne nella dinamica orrorifica, fatta anche dall’azione stessa, dal delitto, dalla morte e dalla tortura. Stimolante visivamente non eccede in virtuosismi torture-porn, e se ne apprezza il minimalismo estetico e narrativo.
Il mito di Cerbero è il mito della distruzione, della ruminazione distruttiva, ciclica e continua. Custode delle porte dell’Ade non permette ai vivi di entrarvi e ai morti di uscirvi. Nell’immaginario pre-dantesco cerbero, per estensione, era tutto il “nudo suolo” in cui i corpi, una volta sepolti, sparivano presto divorati dal tempo. Sembra comunque un po’ forzato l’abbinamento tra il Cerbero mitologico e l’idea originaria che innerva l’intero film. Sicuramente si gioca molto sull’idea di carnivoro, come lo è il cane e sull’idea di distruzione, qui intesa come risultato di una continua masticazione, ma non c’è un link diretto tra le due forti immagini, anche se permette al film di raggiungere un’iconografia terrica, di referenza animale, incisiva.
E qui si chiude il cerchio iniziato con la citazione di Robert Eisler. Infatti, all’interno del cargo c’è, forse un po’ ingenuamente, un gigantesco tritacarne in cui distruggere i corpi degli sventurati per mano di chi entrando nel cargo viene folgorato da un non meglio precisato dio della carne e del sangue che una volta versato e sgocciolato dagli ingranaggi, va ad alimentare il camion stesso al posto della benzina. Quindi, nella scoperta della carne, nella scoperta del sangue e del suo sapore inebriante l’uomo scopre il piacere del dolore, il piacere della sofferenza fisica inflitta e passa alla predazione della sua stessa specie. Da frugivoro ed erbivoro, quindi pacifico con il restante mondo della natura, diventa carnivoro e inizia a strutturare la società in classi e in rapporti di forza/violenza, inizia le guerre e l’attacco predatorio ad altre comunità di uomini, fino ad arrivare agli abominii di cui oggi siamo purtroppo abituati.
Forse è una lettura facile del film di Dean Francis, ma lo stesso film, nella sua pulizia stereotipale e nel minimalismo narrativo, cristallizza per bene idee e concetti attraverso immagini precise e poco confondibili. Il richiamo a una selvaticità e una primitività dell’uomo “abbandonato” nel locus deserticus, e infine horridus, segnato anche dall’euforia sessuale, dalla fisiologia corporale – pisciate varie, tra cui quella dell’impotente Xavier Samuel che si costringe a berla per non morire disidratato. Insomma, tutto il campionario bestiale quasi al completo, un po’ troppo armonizzato dal pudore dell’occhio registico, riesce comunque a veicolare con successo la tesi di Eisler, oltre che regalarci un horror di rara perfezione.
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