Regia di George Clooney vedi scheda film
Apprezzare l'arte sembra essere diventata un'azione di un qualunquismo e di una banalità che sfiorano l'abiezione. E' così dato per scontato questo "raggiungimento" culturale (parole di Clooney all'interno del film) che neanche c'è bisogno di dire il vero autore della celeberrima Pala di Gand, ovvero Jan van Eyck (che si intravede solo sotto l'immagine di un libro), forse perché avrebbe stonato di fronte al grande pubblico, questo nome fin troppo sconosciuto. La sua descrizione si limita a questo: "una delle pale più importanti della cristianità". A quel punto dovrebbe scattare la scintilla? Il desiderio forte e potente di difendere il nostro passato e la nostra cultura? Solo nel sentire, invece di van Eyck, grandi nomi quali Vermeer, Monet, Picasso e, soprattutto, Michelangelo? Non è stata sicuramente una cattiva idea, quella di rappresentare come il nazismo abbia tentato di insidiare anche sul piano culturale le popolazioni che avrebbe voluto soppiantare durante la Seconda Guerra Mondiale, ma andava fatto tutto sotto un'altra prospettiva, con un'altra sensibilità, senza quel professionalismo laccato e qualunquista che in effetti caratterizza la regia di uno George Clooney che mai era stato così fuori forma alla regia, né era stato mai così incapace nel delineare veramente dei personaggi per cui si potesse provare, quantomeno, qualcosa in più (o in meno) della semplice simpatia. La realtà è che le brutture della guerra in Monuments Men non vengono neanche sfiorate, tanto che ogni morte non è mai brutale né prevista, ma sempre l'occasione di fare lunghe digressioni sentimentali per piangere il caro defunto. Questo dopo circa 5-6 anni di guerra già abbastanza distruttiva. Certo, può fare venire i brividi vedere all'inizio del film L'ultima Cena su una parete di un Refettorio completamente distrutto (e questa non è l'unica che ha passato l'opera di Leonardo), ma il presunto vero amore per l'arte, da parte di questi grandi uomini sacrificatisi, non si vede neanche un attimo, occupati come sono a configurarsi come simpatiche figurine capaci di sarcasmo e di ironia nei momenti in cui meno uno se lo aspetterebbe. Bill Murray non meno di John Goodman e di Jean Dujardin, tutti personaggini un po' grossolani e piacioni che si inoltrano in un accampamento americano sprizzante fastidioso patriottismo ed elegantemente rappresentato quasi come un piccolo Eden in cui tutti hanno l'ambizione e il desiderio di andare in guerra. E a questo proposito il sorriso di John Goodman, quando gli arriva la lettera di arruolamento, tradisce l'intero suo personaggio, impreparato nell'arte militare ma adoratore dell'arte scultorea e pittorica. Battute che vorrebbero far ridere, pochi rari ammazzamenti: questa è la Seconda Guerra Mondiale e il nazismo confezionati ad hoc per il grande pubblico, senza la verve di In amore niente regole, senza le bizzarrie (comunque fastidiose, ma almeno originali) di Confessioni di una mente pericolosa, senza il mistero e il coinvolgimento de Le idi di Marzo. Due ore, insomma, che possono essere passate in altro modo, perché queste si trascinano senza convincere nemmeno un attimo per la loro intera durata. Le risate in sala, comunque, (ed eventualmente la commozione), sembrano lasciare soddisfatti tutti: ma l'arricchimento culturale/storico/artistico è pari a zero. Forse ci ricorderemo ancora dopo trent'anni degli uomini che morirono per un'opera d'arte, ma certo fra trent'anni Monuments Men sarà morto e sepolto forse com'è giusto che sia.
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