Regia di Michelangelo Frammartino vedi scheda film
La celebrazione della simbiosi folcloristica tra l'indigeno e la terra su cui poggia il proprio piede.
“Alberi” non è un film di intrattenimento, né un’opera poetica, tantomeno un concetto visivo. “Alberi” è un processo di identificazione, un’affermazione ontologica, il nodo che lega l’uomo preistorico alla terra in cui vive. Non a caso, l’ambientazione del cortometraggio è la Lucania, una terra dalla materia ingombrante che tiene strette in pugno le radici degli abitanti che la vivono. Il film è un’orgia visiva di alberi: la macchina da presa li riprende dal basso, si sofferma sulle fronde scosse dal vento, fa rotazioni verdeggianti che ricordano le panoramiche circolari di Danièle Huillet e Jean-Marie Straub, si fa largo tra il fogliame: lo schermo è rigato da linee irregolari che non sono altro che tronchi di alberi. In sottofondo, il rumore costante di foglie che si scontrano con altre foglie, ogni tanto screziato dal sibilo ronzante di qualche insetto di passaggio. Poi a un tratto, nella foresta che stormisce, si dà luogo all’anomalia: nel folto bosco appare, statuario, un uomo ricoperto di foglie, che impugna un bastone dalla cui cima zampilla altra verzura. Intravediamo l’occhio imperscrutabile dell’uomo albero, rimaniamo spiazzati dall’immobilità della postura che regge solida sulle gambe divaricate. Ce ne sono altri come lui, uomini rivestiti da cascate di arbusti. Dopo le pose, i personaggi bizzarri si mettono in marcia. L’immagine di un paesino sperduto, il parlottare in dialetto, il suono di una fisarmonica, ed ecco risolviamo l’enigma: stiamo assistendo a un rito folcloristico, la celebrazione delle radici. Gli uomini albero camminano insieme verso il paese, le donne allungano il braccio per staccare qualche foglia come mossa di buon augurio. La suggestiva foresta camminante, che ricorda quella evocata nel Macbeth del Bardo, raggiunge la meta, la piazza principale, e in un ballo immaginifico esplode di verde da ogni parte.
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