Regia di Warren Beatty vedi scheda film
Chi parla di contaminazione dell’epos romantico di Via col vento con la materia amorosa-politica de Il dottor Zivago si limita ad una visione semplicistica. Warren Beatty, principale artefice nonché assoluto abitante dell’opera nella sua totalità (rara accezione di attore che si fa automaticamente autore e viceversa), costruisce un film anomalo che risponde a varie esigenze in maniera molto brillante.
È il film epico che serviva alla Paramount per attrarre gli affezionati dei filmoni d’altri tempi (pur non essendo un film d’altri tempi) alla ricerca di grandi storie travagliate. È il film sulla effettiva nascita della sinistra americana, sospesa tra primitive tracce di radical chic (gli intellettuali che, almeno nella prima parte, sono convinti di fare la rivoluzione scrivendo e parlando tra loro) e reale passione civica oggi impensabile (gli stessi intellettuali che partono per la mitica Russia o finiscono in galera a causa delle ostilità ideologiche del governo americano), in bilico tra vecchio anarchismo e nascente comunismo.
È il film che riesce a trovare (se non sempre almeno spesso e volentieri) l’equilibrio armonico tra pubblico (le complesse e talora prolisse discussioni sul socialismo, i comizi con i proletari, le riunioni del partito) e privato (la tormentatissima storia d’amore tra i due protagonisti). Ma soprattutto è il film che reinventa il genere non relegandolo ad una enfatica finzione narrativa che rievoca la storia, ma facendo entrare la storia vera (diciamo una specie di concretizzazione della frase “la storia siamo noi”) nella finzione narrativa attraverso l’inserimento delle inaspettate, gustose ed asciutte testimonianze delle persone che sono state spettatrici o protagoniste delle vicende narrate del film, evitando accuratamente l’effetto documentaristico che avrebbe reso involontariamente Reds il corollario finto alla realtà certificata dalle parole.
Girato nel corso di un anno con un grande dispiego di mezzi, è un film fortemente ed affettuosamente di sinistra (lo stesso Beatty è un’icona della sinistra americana) finanziato con i soldi della società americana più capitalistica del mercato (un po’ come già successe a Novecento), che poco ha a che fare con la tradizione cinematografica a cui si dovrebbe maggiormente collegare, perché non strizza mai l’occhio allo spettatore. E anche dove sembrerebbe prendere la strada del mèlo mieloso riesce ad essere secco e al contempo toccante. Funzionali e memorabili a tal proposito sono gli sguardi della splendida Diane Keaton, specialmente nelle sequenze in cui si capisce il distacco drammatico dall’amato (il comizio in fabbrica, il ritorno alla stazione, il finale).
In questo modo, Reds riesce anche ad essere un kolossal profondamente intimo in cui la finale presenza del bambino che sorride per un istante ha un qualcosa di associabile ad una epifania luminosa e rappresenta la necessità del futuro nonostante tutto. Film di massa e di masse, molto parlato nonché assai educativo (quante cose si apprendono guardandolo, anche perché non si fa certo problemi a ritrarre le ottusità finto-ortodosse del Partito Comunista russo), vive dell’impegno, della dedizione e della passione di Beatty, giustamente premiato con l’Oscar per la miglior regia, che si rivela sorprendentemente (ma neanche troppo, in verità) un attento, coinvolto e scrupoloso direttore del set (preziosi i contributi tecnici, in particolar modo quello fotografico di Vittorio Storaro, che prese anche lui l’Oscar) e degli attori, ispirati ed efficaci, a cominciare dalla fiera Maureen Stapleton (Oscar per la sua Emma Goldman) fino ad un insolitamente sobrio Jack Nicholson nei panni del contradditorio, cinico e romantico Eugenie O’Neil.
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