Regia di Aharon Keshales, Navot Papushado vedi scheda film
Un assassino seriale pedofilo sta seminando il panico in una cittadina in Israele, rapendo bambine e restituendole decapitate dopo avergli inflitto ogni tipo di sopruso. Senza alcuna prova se non le dichiarazioni vaghe di una ragazza, il detective Micki individua in un introverso insegnante di religione di nome Dror il sospettato numero uno (o meglio, l'unico), e alla notizia di una nuova sparizione decide (portando con sé il collega Rami) di arruolare due teppisti, catturarlo, trascinarlo tra le mura spoglie di uno stabile in costruzione e picchiarlo deliberatamente affinché riveli il nascondiglio: ma appena venuto a conoscenza dell'operazione in corso, il comandante Tsvika, responsabile delle indagini, contrariato per l'azzardo e intimorito dalle potenziali ripercussioni, gli intima di fermarsi e rilasciarlo. Passa qualche ora, e in una chiamata anonima fatta alla centrale la voce di un uomo impartisce le coordinate che portano al rinvenimento del corpo brutalizzato e senza testa della piccola, mentre di lì a pochi giorni il pestaggio del professore diviene di dominio pubblico, messo sul web da un ragazzino che, non visto, vi aveva assistito e lo aveva filmato.
Con i riflettori puntati addosso, quindi costretto a mollare momentaneamente l'osso, Tsvika incoraggia Micki, che nel frattempo aveva rimosso lui stesso dal dipartimento a causa della leggerezza commessa, a proseguire le indagini in segreto e per conto proprio, da privato cittadino, cercando così di incastrare Dror, della cui colpevolezza si sente particolarmente sicuro. Sulle tracce del presunto maniaco c'è però anche qualcun altro: è il padre dell'ultima vittima, il funzionario statale Gidi, intenzionato a restituire la testa al cadavere della figlia e a lui il medesimo martirio, e fresco dell'acquisto, idoneo allo scopo, di un rifugio di campagna fornito di una cantina perfettamente isolata sotto il profilo acustico.
Big Bad Wolves è l'opera seconda del sodalizio composto da un ex critico cinematografico e dal suo allievo più promettente, Aharon Keishales e Navot Papushado, già noti per aver realizzato, con il precedente Kalevet (titolo internazionale: Rabies), il primo film horror - e di tutto rispetto! - nella storia di Israele. Le coordinate utili per inquadrarne le molteplici sfumature di rosso sono fornite dagli stessi Keishales e Papushado (autori anche dello script), che nel definirlo un "revenge comedy thriller" non esitano a dichiarare la loro enorme ammirazione per registi come Chan-wook Park, Joel & Ethan Coen e Quentin Tarantino, il quale, non a caso, se n'è innamorato al punto di etichettarlo come il miglior film del 2013. Fatta la tara all'entusiasmo di quest'ultimo (che peraltro qualche giorno prima di questa dichiarazione aveva fatto circolare una lista dei propri "Top 10 Films of 2013", mai aggiornata, dove lo stesso non figurava), Big Bad Wolves si presenta come un film avvincente e serrato che riesce pienamente nell'intento di calibrare tra loro toni non necessariamente conciliabili.
Se l'incipit, con il suggestivo slowmotion che accompagna i titoli di testa mostrando da subito l'inquietante scomparsa della bambina, e tutta la prima parte, che prepara a un ipotetico duello tra un detective caduto in disgrazia ed un uomo apparentemente normale additato da tutti come un mostro, servono a caricare la pellicola di tensione emotiva e quesiti morali, la prepotente irruzione del padre vendicativo ed il mutamento di scenario da essa imposto, con la cantina - adibita a stanza delle torture - che diviene il teatro quasi unico dell'azione, spiazzano e conducono il racconto in territori ibridi nei quali il kammerspiel e lo splatter procedono di pari passo, tenuti assieme dalla ricerca costante del contrasto prodotto da un sense of humour che si fa via via più caustico, surreale e macabro. In questo crescendo di follia nel quale la violenza va a braccetto con la stupidità e diviene labile la distinzione tra vittima e carnefice, il merito principale di Keishales e Papushado è quello di mantenere sempre, nonostante tutto, i dialoghi e gli avvenimenti su un piano di realismo e verosimilianza, e di utilizzare come perno per l'intera vicenda caratteri definiti ed ambigui quel tanto che basta a renderne le scelte, seppur strampalate, comunque comprensibili.
Nel tessuto di quello che è, per natura, un film d'intrattenimento, i due registi non mancano poi di inserire rimandi alla cultura ebraica e critiche neanche troppo velate alla politica militarista di Israele, da un lato regalando momenti di nonsense che sembrano usciti dalla penna del Woody Allen che fu (le schermaglie telefoniche tra Gidi e la madre apprensiva), dall'altra assegnando provocatoriamente il ruolo di unico essere umano del tutto sano ad un palestinese solitario che appare a cavallo come fosse l'eroe di un western degli anni '50.
Big Bad Wolves convince, dunque, e sotto diversi punti di vista: e se il plauso maggiore va ad Aharon Keishales e Navot Papushado, non solo per la regia sicura e versatile ma anche e soprattutto per la precisione di una sceneggiatura metronomica e mai banale, meritano senz'altro menzione Giora Bejach, responsabile di una fotografia di assoluta eleganza, e gli attori Tzahi Grad e Doval'e Glickman, rispettivamente il padre ed il nonno dell'ultima vittima, dotato il primo di una faccia che non sfigurerebbe in un film di Kaurismaki, e interprete il secondo del personaggio più assurdo (oltre che l'ultimo ad entrare in scena) e, con ogni probabilità, della sequenza più disturbante, una tortura praticata con la fiamma ossidrica che dopo la visione popolerà gli incubi di molti - così come anche il finale, rivelatore e agghiacciante.
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