Regia di Alfred Hitchcock vedi scheda film
Prima di avere a che fare con il film, io, direi qualche anno fa, ho avuto una ragazza di nome Rebecca. La nostra specie di storia è durata, corrisposta e non, lo spazio di un’estate. È rimasta una mia grande amica, anche se la lontananza non ci permette più di stare in contatto come vorremmo. In ogni caso, io l’ho sempre chiamata Rebeccalaprimamoglie, perché mi piaceva l’idea che la mia prima ragazza si chiamasse Rebecca. Vedere un film del genere, per me, è una specie di dolce trauma. La Rebecca di Daphne du Maurier è il fantasma dell’amore passato che si è trasformato nello spettro dell’ossessione senza via di scampo (come d’altronde ogni ossessione sa prepotentemente essere), talmente potente da non voler conferire al personaggio di Joan Fontaine un nome, un’identità. Lei è solo la seconda moglie, colei che deve convivere con l’idea del passato in ogni angolo nella casa, con il fardello incarnato dalla signora Danvers (una mostruosa Judith Anderson), espressione della follia pura e, rieccola, dell’ossessione.
Rebecca la prima moglie è un film sull’ossessione del passato che impedisce un presente in previsione del futuro, fuori dal tempo (c’è una fotografia straordinaria per modernità, lucidità e nitidezza ad opera di George Barnes, peraltro premiata con l’Oscar) perché quasi favola nera, con personaggi-archetipo sviluppati con originalità e rinnovamento, attraversata dall’inquietudine della perversione latente e dalla paura del provvisorio minaccioso. Sir Alfred sapeva benissimo dove andare a parare: anche se si ritrova per la prima volta su un set hollywoodiano, le regole del gioco non cambiano (c’è un po’ più di spettacolarità americana nell’atmosfera, ma la cifra stilistica del regista britannico resta tale, si sente, è evidente) anche perché si contamina il mèlo con il thriller, il giallo con il gotico, il dramma con il noir, in un equilibrio armonioso ed inquietante. Un film che non smette di sorprendere, anche nella calcolata e rodata perfezione di Laurence Olivier e nello charme perverso di George Sanders, perfino nella sobrietà sorniona e minacciosa di Hitchcock, addirittura nel suo tono sinistro ma palese eppure ignoto, proprio perché appartenente alla categoria, rara e preziosa, dei classici, ossia quei film che avranno sempre qualcosa da dire.
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