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Re per una notte

Regia di Martin Scorsese vedi scheda film

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La recensione su Re per una notte

di cheftony
9 stelle

“And… Jerry? Jerry, I just want to say one more thing, Jerry: I’m glad what you did to me today, Jerry! You know that? Because now I know I can’t rely on anybody! Not you, not anybody. And I shouldn’t rely on anybody!”
“Right!”
“You know that? And you wanna know something else? I’m gonna work 50 times harder and I’m gonna be 50 times more famous than you!”
“Then you’re gonna have idiots like you plaguing your life!”


Come ogni notte dopo aver condotto il suo show televisivo, il presentatore Jerry Langford (Jerry Lewis) è costretto ad evitare l’orda di ammiratori scalmanati che lo perseguita nel tentativo di strappargli un autografo, una fotografia, un contatto di ogni tipo. Certo, fra gli ammiratori non mancano i veri e propri mitomani: una delle più esagitate è Masha (Sandra Bernhard), lì presente in mezzo alla consueta calca assieme a Rupert Pupkin (Robert De Niro), aspirante showman e comico dilettante che vive ancora con la madre. È proprio quest’ultimo a riuscire ad intrufolarsi in auto sui sedili posteriori insieme a Jerry Langford e ad avere la fortuna di allontanarsi insieme a lui nella notte newyorkese.
Langford, ormai abituato a questo sgradevole tipo di pressioni e intrusioni, risponde con distante cortesia a Pupkin, che lo blandisce nella speranza di avere l’occasione di esibirsi in diretta nazionale al Jerry Langford Show. Quello che il celebre TV host non sa è di avere a che fare con un pazzo: Pupkin comincia a fantasticare, immaginando appuntamenti mai fissati agli studi televisivi per presentare il suo materiale e vedendosi nei panni di un comico brillantissimo, di un successo addirittura superiore a quello del suo mentore e perfino amico Langford.
Nonostante la dolce amica e barista Rita (Diahnne Abbott) cerchi di ricondurre Pupkin a più miti consigli, la sua condizione di delirio è praticamente irreversibile e destinata a frantumarsi solo di fronte ad un’umiliazione: a quel punto, Rupert e Masha architettano un piano tremendo…

 

 

“I know you think I’m joking, but that’s the only way I could break into show business, by hijacking Jerry Langford! Right now Jerry is strapped to a chair somewhere in the middle of this city. Go ahead and laugh, thank you! I appreciate it. But the fact is: I’m here. Tomorrow you’ll know that I wasn’t kidding and you’ll think I was crazy. But look, I figure it this way: better to be king for a night than schmuck for a lifetime.”

 

“The King of Comedy” nasce da lontano, precisamente da una sceneggiatura redatta da Paul D. Zimmerman nei primi anni ‘70. L’idea per dirigere il film viene proposta inizialmente a Milos Forman, che avvia una collaborazione con Zimmerman, salvo poi abbandonare il progetto. Lo script comincia allora a girare di mano in mano e finisce anche all’emergente Robert De Niro, che nel 1974 lo propone a quel Martin Scorsese che lo ha fatto scoprire nei panni di Johnny Boy in “Mean Streets”. Marty esprime scetticismo e disinteresse, generando un altro nulla di fatto. Passa ancora qualche anno, De Niro prende parte ad un capolavoro dietro l’altro e propone di dirigere “The King of Comedy” a Michael Cimino, che lo aveva diretto ne “Il cacciatore”. Dopo il disastro legato a “Heaven’s Gate”, però, il suo nome diventa improponibile per ogni casa di produzione. Dopo la loro ennesima e fruttuosa collaborazione per “Raging Bull” – film peraltro nato grazie all’insistenza di De Niro in un momento in cui Scorsese se la passava malino fra dipendenze e problemi di salute – il grande Bob riesce a convincere uno Scorsese che, ormai personaggio celebre, riesce persino ad apprezzare le implicazioni della sceneggiatura. “The King of Comedy” vede così la luce nei primi mesi del 1983.
Il lavoro di Zimmerman, sceneggiatore e critico cinematografico e televisivo per Newsweek, prende come riferimento di partenza un articolo pubblicato su Esquire, riguardante un uomo talmente ossessionato dal presentatore Johnny Carson da tenere un dettagliato diario contenente le sue considerazioni su The Tonight Show.

 

“The talk shows were the biggest shows on television at the time. I started to think about connections between autograph hunters and assassins. Both stalked the famous – one with a pen and one with a gun.” [Paul D. Zimmerman]

 

Jerry Lewis

Re per una notte (1983): Jerry Lewis

 

“The King of Comedy”, ad ogni modo, andò malissimo nell’America conservatrice neo-reaganiana e segnò nettamente la carriera di Scorsese, tanto che in seguito si vide cancellare (temporaneamente) la produzione di “The Last Temptation of Christ” e dovette proseguire la sua carriera con un film piccolino – ma invero assai buono – come ”After Hours”. Eppure oggi lo si può tranquillamente annoverare fra i capolavori del regista newyorkese.
Si tratta di una commedia nera e acidissima, una satira dolente sul mondo dello show business e delle celebrità, sulla spasmodica voglia di apparire, sul desiderio di una fama fine a se stessa. Un sogno americano tutto nuovo, coniugato alla realizzazione del proprio narcisismo, all’acclamazione nonostante la propria mediocrità, all’affermazione per uscire dall’anonimato (Pupkin risulta storpiato in svariati esilaranti modi, fra cui Pipkin, Pumpkin, Pupnik). Il protagonista, per l’appunto Rupert Pupkin, viene superbamente interpretato da un De Niro allora in autentico stato di grazia ed è personaggio già iconico, nonostante certi aspetti della sua caratterizzazione ricordino fin troppo da vicino il Travis Bickle di “Taxi Driver”: isolati, alienati e financo disturbati, giungono entrambi ad una condizione di delirio in cui realtà e fantasia si mescolano fino a diventare indistinguibili. Se Bickle è un veterano del Vietnam, le cui turbe sono riconducibili a colpo sicuro allo stress post-traumatico, Pupkin è un personaggio più sottilmente pericoloso e viscido, nonostante i toni da commedia lo facciano in qualche modo risultare simpatico al pubblico.

 


Il personaggio più cupo e drammatico è invece quello di Jerry Langford, a cui dà corpo (e nome di battesimo) quello che negli anni ’50 veniva appellato proprio the King of Comedy, ovvero Jerry Lewis. La prima scelta per il ruolo di Langford era il succitato Johnny Carson, con Lewis che in ordine di preferenza veniva dietro molti altri, TV host e non. Eppure la sua interpretazione è davvero eccellente, forse facilitata da una serie di tratti distintivi che rendono Jerry Langford sovrapponibile alla personalità fuori scena (tutt’altro che ilare e giocosa) di Lewis. Tanto per citare nientemeno che Scorsese: “Sometimes it went beyond that: he was wearing his own clothes, he was playing scenes where he was often expressing his own feelings about show business and celebrity, and at times you didn’t know if you were seeing Jerry Langford or Jerry Lewis”. Ma funzionano egregiamente anche i siparietti in cui Langford e Pupkin sono complici e finalmente colleghi, nelle fantasie debordanti di Rupert.
La regia di Scorsese è efficace e dispensa qualche splendida carrellata, ma in generale adopera tanto senso della misura e camera ferma, quasi a ricreare la staticità di una regia televisiva. Le scene dei talk show sono state girate in videotape e poi trasferite su pellicola, a conferire uno stile televisivo vintage. Ed è proprio nei panni di un regista di talk show che Scorsese appare in un breve cameo, così come altri membri della sua famiglia (la madre Catherine è la voce off della madre di Pupkin, il padre Charles l’avventore di un bar). Ma i camei più interessanti sono senz’altro quelli di tre componenti dei Clash (Joe Strummer, Mick Jones e un invisibile Paul Simonon) in tour statunitense e di membri della loro crew come Don Letts e il produttore Kosmo Vinyl: tutti accreditati come street scum (feccia di strada), fanno parte dei passanti che assistono al battibecco fra Rupert e Masha.
Un finale ambiguo e a lungo tema di dibattito chiude “The King of Comedy”, un film davvero eccellente e da riportare all’attenzione ogni volta che si pensa a Scorsese come ad un regista (solo) di gangster movie.

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