Regia di Arsen A. Ostojic vedi scheda film
Vivere sopra la morte. Sopra il ricordo di una vita che è perduta per sempre. La guerra fratricida in Bosnia ha provocato traumi devastanti, che continuano a tenere le anime inchiodate al passato. Per Halima, una donna musulmana il cui marito Salko e il cui figlio Mirza sono rimasti vittime delle pulizie etniche compiute dall’esercito di Milosevic, ogni momento è solo in apparenza un frammento di presente. Quando si guarda intorno, nella sua casa, nel suo villaggio, in mezzo alla sua gente, ogni assenza, ogni vuoto, ogni segno di distruzione è un riferimento ad un’epoca di normale felicità che racchiudeva tutto il senso della sua esistenza, e che è impensabile accantonare. Halima è ancora dentro quegli anni, per lei inconclusi, almeno fino a che i corpi dei suoi familiari non saranno recuperati, identificati, destinati a degna sepoltura. Per chiudere il cerchio e poter andare oltre occorre ripristinare la verità. Deve sapere anzitutto lei, ma anche chi, tanti anni prima, le era vicino, come sua nipote Safija, e Slavomir, il marito serbo di quest’ultima. Solo condividendo le medesime certezze, alla luce del sole, ci si potrà nuovamente riunire, ritrovando l’amore e la serenità. Halima non si arrende all’idea che sia meglio dimenticare quello che è accaduto, gli errori commessi, le atrocità compiute, i segreti, le bugie, le fughe messe in atto per cercare una precaria ed ingiusta forma di salvezza. Alla colpa e al dolore non si voltano le spalle. Bisogna, invece, incamminarsi lungo il sentiero spezzato dalle divisioni tra gli uomini, dal rancore, dalla terrore di guardare in faccia la realtà, dall’incapacità di affrontare il rimorso e di superare l’odio. Tra l’abitazione di Halima ed il villaggio serbo di Rastoci il collegamento è assicurato da una strada asfaltata, però non c’è chi la percorra. Gli autobus di linea non attraversano il confine. Al di là di quella frontiera abitano gli assassini cristiani che nessuno, da questa parte, ha voglia di incontrare. Nemmeno l’anziano Avdo, il fratello di Halima, che preferisce considerare morta la figlia scappata di casa per andare in sposa al nemico. Tuttavia, per lei il nefasto corso degli eventi non ha fatto saltare i legami di sangue: la storia non ha smarrito i suoi personaggi, li ha solo allontanati dalle loro origini, cambiati di ruolo, spostati in un punto invisibile della scena, ad interpretare un’azione secondaria. Il racconto si è tragicamente disgregato, nello spazio e nel tempo, ma non è impossibile riannodarne i fili. Questa è la missione solitaria che la protagonista, a dispetto delle resistenze ed incomprensioni dei suoi parenti ed amici, decide di intraprendere, da sola, a costo di riaprire ferite profonde, mai del tutto rimarginate. Il film di Arsen A. Ostojic insiste sulla necessità di tornare indietro, che è un’esigenza umana, più che un dovere morale. La pacificazione non è un processo riguardante la sfera sociale, politica o religiosa, perché il carattere collettivo del dramma corrisponde soltanto ad una superficiale visione d’insieme. Il conflitto ha seminato il male all’interno dei cuori e delle coscienze individuali, ed è da lì, con una coraggiosa opera di chiarificazione e riavvicinamento – dagli effetti potenzialmente esplosivi - che bisogna estirparlo, a mani nude, a proprie spese, e senza avere paura. La morale passa attraverso un realismo tipicamente balcanico, al contempo freddo e lirico, che però, in questo caso, evita la coralità alla Kusturica, per calarsi nella dimensione intima, sofferta e silenziosa dei rapporti interpersonali. La luce, tuttavia, appare impastata della stessa sostanza densa e pesante che domina i paesaggi di Underground, e trattiene lo sguardo entro l’orizzonte ristretto della assurdità senza rimedio. Una visione opportunamente polverosa, che fa della crudeltà la terra, umida e nera, a cui tutto ritorna, per sparire e poi rinascere.
Halimin put ha concorso, come rappresentante della Croazia, al premio Oscar 2014 per il miglior film straniero.
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