Regia di Kelly Reichardt vedi scheda film
Tre ecologisti radicali pianificano e mettono in atto un piano dinamitardo che porta alla distruzione di una diga idroelettrica, considerata responsabile di un grave impatto ambientale e di un ingiustificato dispendio di risorse naturali. Quando la loro azione sarà causa della morte di un incolpevole turista, la fermezza delle loro convinzioni ideologiche e la fiducia nella reciproca omertà saranno messe a dura prova dal vacillare di una condizione psicologica che scivola inesorabilmente verso la paranoia ed il sospetto. Inevitabile dramma finale.
Avvezza sin dai suoi esordi alla ribalta festivaliera di un cinema da sempre impegnato, la regista Kelly Reichardt si cimenta con un soggetto che pare fatto apposta per solleticare tanto l'interesse di una platea generalmente riflessiva e attenta quanto per provocare la reazione stizzita e scomposta di una critica che difficilmente accetta di buon grado la furbesca programmaticità di intenti di argomenti tanto spinosi e controversi. Che il cinema indipendente americano avesse una fissa per le implicite contraddizioni di una democrazia costituzionale fondata sulla libertà di pensiero e di azione che rischia di ritorcersi contro se stessa, lo avevamo già capito da tempo con le denunce di un pericoloso settarismo animista-ecologista che va dalla premiata ditta Marling-Batmanglij (Sound of My Voice 2011 - The East - 2013) a quello altrettanto cupo e livoroso di Sean Durkin (Martha Marcy May Marlene 2011), per non parlare della irriverente vena iconoclasta di un kevin Smith d'annata (Red State 2011).
Qui la Reichardt gioca con un meccanismo della tensione che sembra funzionare bene almeno all'inizio, imbastendo un rendez-vous carbonaro dove lo spericolato pragmatismo dei due personaggi principali sembra irridere l'ingenuità accademica di un cineforum ecologista fatto di tante belle parole ma di pochi fatti concreti e conducendoci verso il misticismo noir di una citazione del classico di Arthur Penn (Night Moves 1975) dove le relazioni umane sembrano fondate sul fragile equilibrio di un'apparenza pronta ad infrangersi contro le secche di un cinico e spietato individualismo. Peccato però che l'occasione per una interessante analisi di rapporti personali sempre sull'orlo di una perniciosa crisi di nervi sia inevitabilmente inficiata dal pregiudizio ideologico ed etico che l'autrice nutre verso la storia ed i suoi personaggi, descritti più come ingenui e paranoici rappresentanti di un attivismo velleitario ed inconcludente che, dopo il delitto, non sanno reggere al peso di un castigo che li conduce alla deriva di reazioni impulsive e criminali e finendo per dimostrare (ma c'era poi tutto questo bisogno?) che il furore anti-sistema e la violenza senza costrutto sono strade che non portano da nessuna parte. Abbastanza schematico e carente da un punto di vista narrativo, con personaggi fondamentali che sembrano uscire troppo presto dalla storia (Peter Sarsgaard) o ricomparirvi solo alla fine (Dakota Fanning), soffre per una inevitabile debolezza della messa in scena e per un ritmo decisamente soporifero, lasciando tutto il peso del film sulle spalle del volenteroso Jesse Eisenberg nella parte del solito imbranato di successo (Il Calamaro e la Balena 2005 - The Social Network 2010) costretto non si sa bene perchè a lasciare il lavoro (qualcuno sospetta qualcosa ma non fa accuse specifiche) ed a guardarsi le spalle con la coda dell'occhio perennemente incollata allo specchietto retrovisore. Peccato, perchè i film precedenti avevano fatto sperare bene.
Nominato al Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia 2013 e Premio Speciale della Giuria al Deauville Film Festival dello stesso anno.
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