Regia di Craig Strachan vedi scheda film
Uno sconosciuto film indipendente britannico si rivela essere uno dei titoli migliori del panorama licantropico dei 2000. Innanzitutto si riappropria di un elemento, scenografico come simbolico, che riporta il racconto lupesco alle origini, alla ancestralità delle sue pulsioni e delle sue significazioni. Siamo infatti nelle desolate lande inglesi, proprio dove il celebre David di An American Werewolf in London di John Landis veniva attaccato e morso da un lupo mannaro. Una sequenza incredibile, dal valore antologico, una mise-en-abyme del côté atavico del racconto lupesco che fa scuola ancora oggi, e lo dimostra l’intera ambientazione del film diretto da Craig Strachan.
Kelly Ann è una giovane ragazza madre come tante nell’Inghilterra di oggi. Insieme ad altri tre ragazzi “disagiati” come lei, Kelly Ann partecipa ad una dinamica motivazionale e terapeutica come le tante, purtroppo, che si fanno oggi. La dinamica prevedere che le quattro pecorelle smarrite del gregge di dio, lasciate nel bel mezzo del nulla bucolico, sappiano ritrovare la strada di casa attraverso delle cartine, con i loro segni, simboli e legende. Appena il prete lascerà i quattro ragazzi – due femmine e due maschi più o meno tratteggiati come il canone prevede: la protagonista taciturna, la sciacquetta, il simpaticone e il duro – ad essi si aggiungerà un quinto ospite non gradito. É Lee, il ragazzo che ha messo incinta la protagonista e con cui le cose per il momento non vanno bene. Ad interpretarlo è Martin Compston, il Liam di Sweet Sixteen di Ken Loach. Ed è infatti l’attore che più di altri sa gestire la propria presenza in scena. Nel gruppetto vengono così a formarsi situazioni particolari che creano quei conflitti che danno pepe alla narrazione senza distogliere il film dal suo vero intento.
Strada facendo, cioè cercando la via del ritorno, s’imbattono in un inquietante pastore di pecore che durante la notte cercherà di violentare Kelly Ann. Salvata dal giovane padre di suo figlio, Kelly Ann ritroverà in lui il ragazzo amato e riallaccerà un rapporto semi-consolatorio. Va detto che Kelly Ann vive il dramma di una materintà rubata, visto che il figlio gli è stato portato via. Mentre scatta di nuovo l’idillio tra Kelly Ann e Lee, il pastore sfuggito al giovane padre non sfuggirà alla fame di un grosso lupo mostruoso. Da qui parte l’orrore.
É notte. I ragazzi sentono un bambino piangere in un castello, vanno per salvarlo e trovano il cadavere del pastore. C’è una bestia assetata di sangue che li segue. Ci sarà il solito body-count, una certa dose di splatter, qualche prurito erotico e una sublimata tensione omoerotica – Lee e il suo amico che pisciano uno in fianco all’altro parlandosi con naturalezza. Il tutto amalgamato da una sapiente regia orrorifica che sa cosa mostrare e cosa non mostrare. Che sa come far apparire il lupo, ovvero l’agente del terrore, in modo che sappia inquietare più per la sua fisicità che per la sua suggestione.
Kelly Ann non capisce più nulla. Il ritrovamento di quel bambino sembra essere la cosa più importante adesso. Le pecorelle smarrite fuggono dal lupo cattivo, e non è poi tanto una metafora. Il film infatti gioca su questi elementi ricordandosi non solo di Cappuccetto Rosso ma anche dell’immagine religiosa delle pecore, del pastore e di un potenziale lupo assassino. La frustrazione di molte giovani ragazze di oggi, vittime di una società che le accusa di essere gravide troppo presto e di volerle redimere attraverso il martirio indiretto della pressione psicologica religiosa, è il sottotesto ultimo del film.
Kelly Ann vuole proteggere quel bambino strappato dalla fauci del lupo. Un lupo deforme, abnorme, che il trucco meccanico rende più affascinante di ogni sorta di digitalismo, restituendoci così la fisicità di un vero racconto dell’orrore. La notte, il bosco, l’adolescenza, la sessualità, il sangue, la carne, il lupo. Tutto è raccontato classicamente, ma con l’aggiunta dell’istinto moderno del suo creatore, il regista, che con pochi mezzi fa del popolare racconto di lupi e agnelli una parabola sociale e anticlericale moderna.
No, il lupo non è il prete, come ci si sarebbe aspettati da una lettura più canonica del genere. Resta comunque un personaggio laido, che si scopa la donna che lo ospita senza dirle che è un prete, e che nel momento di salvarla dalle grinfie del lupo la lascia chiusa fuori di casa a morire. In realtà l’identità del lupo abominevole è un’altra e originale. Non ci troviamo davanti ad un lupo mannaro classico, bensì ad una sorta di unidirezionalità della licantropia. I due grossi lupi, verosimilmente femmina e maschio e verosimilmente genitori del bambino portato in salvo dai ragazzi, anche una volta morti non li vediamo assumere le fattezze umane. Questo ci porta a chiederci se mai si può parlare di licantropi.
Il film quindi, molto più poeticamente, utilizza la figura del lupo mannaro come simbolo di diversità. Infatti, l’unica trasformazione a cui assistiamo nel film è quella di Kelly Ann in lupo. Trasformazione, unidirezionale, che avviene durante l’allattamento del piccolo trovatello, anch’egli poi trasformatosi in lupo. Lasciamo perdere la brutta immagine dell’agnizione finale con Kelly Ann gigantesca lupa che allatta il suo lupacchiotto in una stanzetta che sembra quella della casa delle bambole, immagine deludente, un po’ come il ragno gigante nel finale di It. Qui l’immagine dura però così poco che la si dimentica in fretta.
Le ultime battute del film vedono Kelly Ann-lupa, correre per le campagne selvagge del titolo al fianco del suo lupacchiotto e del suo nuovo “maschio”, il lupo abnorme che è anche l’assassino del suo giovane Lee. Insomma, nella “mostruosità” la “felicità”. Una mostruosità non ontologica, come se dovessimo essere tutti dei mostri per essere felici, bensì una mostruosità in opposizione all’edulcorato mondo che la falsa società borghese ci obbliga a vivere e ad accettare. Ancora una volta, il licantropico s’è rivelato un genere ed un immaginario altamente sovversivo.
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