Regia di Hirokazu Koreeda vedi scheda film
Con estrema delicatezza e con una narrazione che segue un percorso lineare, senza concedere nulla alle facili reazioni che poteva indurre la trama inevitabilmente emotiva, Hirokazu Koreeda gira un film che viaggia parallelo a quello di Lorraine Lévy (Il figlio dell’altra) in quanto in entrambi i casi si parte da uno scambio di neonati nella clinica dove sono nati. Due le differenze però, di cui una assolutamente sostanziale ai fini dell’osservazione da parte dell’obiettivo del regista e dello spettatore. Inizialmente si parte da due tipi di sostituzione di bimbi: nel film giapponese scaturisce da un atto volontario, enormemente grave, da parte di un’infermiera spinta da invidia per l’altrui felicità, per semplice dispetto; nel film francese, ambientato nella martoriata terra israelo-palestinese l’infortunio avviene invece per mero errore. Se però in quest’ultimo troviamo già giovanotti i due “scambiati” che si trovano nella scomoda posizione di dover sceglier loro e accettare non solo una diversa famiglia e per giunta (ancor più difficoltoso) di nazionalità opposte e in astio antico, nel film in esame i soggetti scambiati sono ancora piccoli (6 anni) e non sono quindi in grado di capire la situazione e le difficoltà che incontrano le due giovani coppie nell’apprendere increduli la sorprendente notizia dell’ospedale.
L’occhio del regista si sofferma in particolare sul carattere e le reazioni psicologiche di uno dei papà, Ryota, un affermato professionista che – figura frequente nel cinema – dedica poco tempo alla moglie e al figlioletto, preso com’è dalla sua carriera. È lui il personaggio su cui indugia maggiormente il regista: la sua prima reazione è quella di non perdere il bimbo a cui, seppur superficialmente ma severamente, ha impartito i suoi principi di vita e regalato tanti giochi elettronici; in seguito realizza che il sangue del suo sangue è però dell’altro bimbo e addirittura li vorrebbe entrambi a casa sua, sottraendo all’altra coppia uno dei piccoli. Il percorso è duro e lento, sia per lui che per la moglie e anche per l’altra coppia, composta da due ottimi genitori, non molto benestanti ma ben predisposti a risolvere nella migliore maniera la anomala e incresciosa situazione, almeno per il bene dei due bimbi.
Ed è appunto Ryota che, comprendendo alcuni suoi gravi errori di comportamento e di rispetto verso gli altri, che deve compiere il tragitto mentale per la miglior soluzione. Simbolica e significativa è la sequenza finale in cui questo papà e il suo bimbo inconsapevolmente adottato percorrono una strada divisa in due da una ringhiera. È come percorrere due vie della vita parallele che non vogliono incontrarsi mai, ma tutto potrebbe cambiare e la scelta è ora che arrivi: una metà della strada è più in basso e così finalmente il viso del papà è alla stessa altezza di quello del bimbo, come per comprenderlo meglio, guardarlo in faccia e dirgli definitivamente che gli vuol bene. In fondo a quella strada le due vie si uniscono ed è inevitabile che l’uomo e il piccolo si uniscano. Si abbracciano, siamo alla svolta.
Hirokazu Koreeda usa la mano leggera e delicata, come solo gli orientali sanno fare. Il modo di narrare le situazioni anche le più difficili è dolce e quasi anestetizzato dalla loro filosofia di vita e accettano il destino, quale che sia, con un sorriso. La sensibilità non cede mai al drammatico e gli attori sono ben predisposti a seguire le orme del bravo regista. Un bel film, un tuffo nel civile Giappone.
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