Regia di Hirokazu Koreeda vedi scheda film
Keita è un bimbo di 6 anni, figlio unico e gentile di un uomo in carriera e della sua sposa soave. «È remissivo» sostiene il padre. «Sin troppo». Lui, fuggito da giovane dalla propria famiglia, da una madre non sua, l’ha educato a eccellere, ma Keita affronta con il sorriso i propri piccoli insuccessi, e con gioia garbata esclude la competizione dal proprio orizzonte. Come la madre. Poi i genitori ricevono una telefonata: Keita non è loro figlio biologico. È stato scambiato nella culla. «Si spiega tutto», dice il padre. Il loro vero erede è stato cresciuto in periferia, da una famiglia di ceto decisamente inferiore, nel disordine felice di fratelli e sorelle. Ora, per le coppie, si tratta di scegliere: continuare a crescere il figlio sociale o richiedere uno scambio in nome del sangue? Koreeda, con lo sguardo cortese del cinema degli Ozu e degli Yamada, affronta un topos della commedia degli equivoci, introduce stereotipi e schematismi (le famiglie sono opposte, caratteristica per caratteristica), ma lo sviluppo non cerca lo spettacolo: scioglie il melodramma e la commedia nel mare del vero. Perché se si piange, se si ride, lo si fa frequentando i personaggi, guardandoli con comprensione. La lenta comprensione degli errori, dei sacrifici, delle impotenze. E dei loro contrari. Quello di Koreeda è cinema di realismo limpido, profondamente umanista. Alla superficie placida delle sue inquadrature non interessano gli eventi notevoli, ma le increspature della realtà, le piccole onde che trasportano i tumulti interiori.
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