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Father and Son

Regia di Hirokazu Koreeda vedi scheda film

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La recensione su Father and Son

di EightAndHalf
7 stelle

La lenta e comprensiva cinepresa di Hirokazu Kore-eda sta sempre attenta a cosa mettere in scena, dove metterla e con che misura. Sempre accurata, delicata, silenziosa, senza mai andare troppo avanti né troppo indietro, alla giusta distanza per poter non rendere perfettamente chiaro se quella che si cerca è la pura emozione oppure si voglia destare la problematicità. Quelli che si vedono sono veri esseri umani, palpitanti, immersi nell’andamento normale di una vita che non si tinge né di mistero né di ideali. Un semplice muro del pianto o dell’emozione, che non sai mai dove finirà. Come quando si aspetta qualcosa, nella vita quotidiana, nella speranza che tutto vada per il verso giusto, o forse senza speranza, tanto si è inconsapevoli di cosa possa riservare il futuro. Comunque aspettando, senza riuscire a fare molto, prima che la catastrofe della verità (genetica, carnale) sovrasti i corpi ancora tesi nell’attesa.

 

Father and son riesce nell’impresa umile ma maestosa di non cercare l’eccessiva originalità né lo stile debordante, per avvincere e convincere, ma il semplice andamento mai crudo ma nemmeno idealizzato di un reale fatto di credenze, convinzioni e false illusioni. I personaggi si muovono sullo stesso piano, non su podi ideologici allestiti dall’eventuale invadenza del regista, ma intersecandosi nei ruoli e nelle posizioni, così come avviene nella vita vera. Nonostante la musica possa aiutare a capire di che scena si tratti, se trist o meno, spesso essa si insinua delicatamente, e lascia trapelare un’emozione reale, timida e non tracotante, sempre temperata, in grado di non imbastire drammi ma forse anche un po’ castrata e rinchiusa. Che il film sia il trionfo della “via di mezzo”, fra gli eccessi e i difetti, può essere un punto a favore; oltretutto, in Occidente non funzionano quasi mai le storie che si reggono su un pretesto per avvolgersi nelle pure personalità dei protagonisti o nei sentimenti in evoluzione, questo è ormai solo un piccolo miracolo orientale. Ma questa eccessiva medietà può anche essere un punto a sfavore: che forse non ci sia la voglia, o il coraggio, di osare? È lecito chiedersi, dopotutto, se si potesse fare di più, con più fervore, senza cadere nel sensazionalismo? Si può raccontare una storia pudica, quieta, priva di fronzoli, anche costruendo un proprio personale stile? Anche se la miglior regia è quella che non si vede, dietro un uomo sta respirando, comunque.

 

La cosa che maggiormente rischia Hirokazu Kore-eda è quella di aver fatto un film eccessivamente sui contenuti, come se la forma non avesse grande ruolo in tutta la minestra. Se si eccettuano le riprese sulla riva del fiume, dove tutti i protagonisti si fanno una foto in un momento di fragile serenità, nessuna immagine ha granché di poetico o di leggiadro da offrire: si segue solo in parte la scia delle emozioni, o lo si fa nella maniera più banale e “occidentale”, con musica e, ancora, [stavolta alla maniera orientale] eccessiva timidezza. Non si capisce in che misura la regia non voglia partecipare eccessivamente o non sia in grado di farlo, si crea attorno al film un’aura di ambigua potenzialità non particolarmente funzionale ai contenuti, delicati ma mai presi con superficialità. Un film fatto di cose semplici, si potrebbe dire, e se ci si fermasse a questo Father and son avrebbe fatto il suo lavoro per intero. Ma come accettare questa leggera ruggine sottopelle, non appena si cerca di guardare al complesso, all’equilibrio fra forma e contenuto?

 

La realtà è che Hirokazu Kore-eda sa benissimo come rendere il passare del tempo, l’alternarsi delle stagioni, l’inalterabilità degli eventi, prendendo tutto con calma e prendendosi tutto il tempo che gli serve per poter rendere plausibile e empatica la trasformazione di ogni singolo personaggio. Nonostante tutti i caratteri siano ben definiti, non c’è alcun tipo di schematismo o di ordine didascalico: se si avverte, infine, la possibilità di una redenzione, è tutto perfettamente realistico, inattaccabile, in linea con il tono impegnato ma mai brutale di un regista che potenzialmente potrebbe offrire anche di più. Anche se la storia, dal canto suo, offriva talmente spunti che è strano non si sia riusciti a coglierli tutti.

 

Il discorso sulla scelta di scambiare più o meno due bambini di sei anni scambiati nella culla e affidati a famiglie diverse non è un pretesto narrativo nuovo, ed è stato sviluppato in passato in maniera discontinua e irregolare. Qui il patos c’è, non vuole esibirsi fastidiosamente ma costringe ad una strozzata commozione; eppure si fa fatica a credere che si vada avanti con la decisione dello scambio. D’altronde, che il tema sia “i veri genitori sono quelli che crescono i figli, e non quelli che li concepiscono”, è chiaro fin dall’inizio. Ma Hirokazu non vuole fare un film su un tema. Così facendo accumula situazioni, imbarazzi e piccoli rancori per narrare (più che evocare) la chiusura mentale di uno dei due padri (il protagonista), legato all’idea che il figlio “vero”, “di sangue”, possa avere le sue stesse virtù (definibili anche come “malattia del lavoro”), e le liti e i confronti conseguenti a simile atteggiamento, destinato a cambiare una volta che lui, come gli altri genitori, si rende conto che è impossibile veicolare razionalmente i sentimenti. Dunque un inno all’amore disinteressato, alla comprensione e alla fiducia nell’altro, senza ghirigori ma con un’adesione alla realtà falsata solo dalla musica e da rari (ma lampanti) picchi di poesia. Una lucida riflessione sui rapporti di parentela e sull’infanzia, che avrebbe potuto entrare ancora più prepotentemente e meritatamente nella storia del cinema.

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