Regia di François Ozon vedi scheda film
C’è chi l’amore lo fa per noia, chi se lo sceglie per professione, Isabelle né l’uno né l’altro: lei lo usa per ridisegnare, fuori dallo specchio, l’immagine di sé che ha intravisto nella cornice, in vacanza al mare. La notte del suo diciassettesimo compleanno baratta la verginità con la disillusione della vita adulta e decide, con cocciuta e vorace arbitrarietà, di vendere il suo corpo a uomini ricchi e maturi, assecondando le loro voglie in stanze d’albergo di lusso per 300 euro all’ora. Quei soldi non li spende, li appallottola nei cassetti da adolescente riservata e immusonita che madre e patrigno non si preoccupano di aprire; a scuola galleggia negli abiti sformati e nella beata ingenuità dei compagni, poi s’infila una camicetta di seta e si trasforma in Léa, prodotto di classe per clienti esigenti. Scandita dal passare di quattro rohmeriane stagioni, suggellate da altrettante soavi canzoni di Françoise Hardy, l’opera di François Ozon ha il passo lieve ma diritto della sua protagonista, corpo di sovrannaturale bellezza che, anche con tutti i vestiti addosso, pare far l’amore con lo schermo. Imperscrutabile, Isabelle/Léa non dà spiegazioni, non esibisce traumi né trame, non cerca il denaro né il piacere, tiene per sé il suo mistero. Ozon scardina col sorriso il punto di vista del recente cinema francese, perennemente in bilico fra voyeurismo e moralismo, sul fenomeno della prostituzione giovanile (vedi Student Services e Elles): il suo scandalo non è nella pelle esposta e brancata della meravigliosa Marine Vacth, ma nello sguardo ironico e limpido sul suo vendersi. Non c’è redenzione né punizione per gli “atti osceni” che lacerano la quieta ipocrisia della casa borghese di Isabelle: Ozon si prende gioco, con classe, della madre che non trova il bandolo della matassa, della prurigine negli occhi del patrigno (un grande Frédéric Pierrot), dello sconcerto del fidanzato inutile (che se ne fa Isabelle/Léa dell’amour d’un garçon?), dello spettatore che cerchi un prezzo da pagare per il comportamento “anormale” (e dunque una giustificazione per se stesso, per aver assistito a uno spettacolo indecente senza il dazio del giudizio morale). E scrive, in complicità con lo sguardo curioso del fratellino che vede la sorella mutare sotto i suoi occhi, i quattro atti di un romanzo di formazione ardito e coerente, senza malizia né furbizia.
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