Regia di Denis Villeneuve vedi scheda film
La naturalizzazione statunitense di Denis Villeneuve riceve una spinta significativa con il ricorso da parte del regista canadese ad uno degli argomenti cinematografici fondamentali, la scomparsa di qualcuno, di qualcosa, e il tentativo di ritrovare chi, che cosa?
Durante il pranzo in famiglia nel Giorno del Ringraziamento, due bambine scompaiono e tutto lascia intendere che siano state rapite. Nonostante una discreta lunghezza, il film si snoda come un thriller dal ritmo serrato e compatto, rispettando la migliore tradizione di genere, quella che si avvale di stereotipi e valori accettabili nella loro rappresentazione, manipolati con scaltrezza e abilità, gestiti da specialisti dell'immagine che sanno come rivolgersi a quel pubblico omogeneo e sostanzialmente passivo che cattura. L'elemento variabile di Prisoners è il suo autore, la sua capacità di sottrarsi alle regole del mainstream, il suo punto di vista non così omologato che in La donna che canta (2010) aveva dimostrato di poter sostenere. Occorre frugare confusamente fra gli "amabili resti" del film per individuare la composizione ideologica dei personaggi, separarli quasi dalla storia stessa per stabilire quella scala valoriale sulla quale Villeneuve dovrebbe costruire la sua novità. Dando per scontato che sotto il tappeto del male ne giace un altro sempre più grave e profondo, il regista per scelta non prende troppo in considerazione le figure dei probabili sequestratori, lasciandoli in un limbo narrativo abbastanza indefinito come parte endemicamente malata della società. Il film si articola sul confronto fra i due personaggi in apparenza antitetici ma sodali nelle intenzioni. Keller, il padre di una delle bambine è deciso a farsi giustizia da solo ed a ogni costo, non riponendo alcuna fiducia nella legge. Loki il poliziotto che si occupa del caso, è più riflessivo che portato all'azione, forse troppo intaccato dal marciume quotidiano con cui ha a che fare e che lo rende quasi più vicino all'inettitudine che non alla tipica e sarcastica baldanza dei tutori della legge a stelle e strisce. La sua lentezza che si rivela essere meticolosità, funge da elemento riequilibratore rispetto all'azione così sopra le righe ed eccessiva che scaturisce dal poco credibile Keller. Annullata la dicotomia consueta fra il bene e il male perchè entrambi sono proiettati verso la risoluzione positiva del caso, Prisoners dovrebbe innescare un dibattito socio antropologico sulla natura umana, sulle sue pulsioni primitive, sul rispetto e sulle regole di convivenza. Il dilemma fra legalità e legge della giungla aleggia minacciosamente, ma quando il primitivismo sembra prevalere entra a comando in gioco un elemento di mitigazione perbenista che in fondo normalizza e tranquillizza la coscienza. Prisoners può così restare ancorato alle sue stimmate da thriller psicologico senza psicologia, ne guadagna il ritmo, la tensione, la dimensione spettacolare e magari anche il botteghino.Ciò che manca è il rimosso del personaggio di Keller, il suo comportamento troppo determinato e risoluto senza che emergano lati contraddittori del suo profilo, lo mette fuori gioco dal piano emotivo, più vicino al C.Bronson giustiziere che non a un delinquenziale S.Penn di Mistic River, esempio quest'ultimo di un personaggio discutibile e negativo supportato dalla crescita del racconto che riesce a mettere lo spettatore in forte contraddizione davanti al suo autentico spessore affettivo, si ricordi l'agghiacciante urlo "..c'è mia figlia là dentro?.." (http://youtu.be/uMgOxGxElaw)
Così Prisoners rischia di deragliare verso un semplice revenge movie senza se e senza ma, soprattutto senza troppo chiedere allo spettatore che un conformistico allineamento ad un modello comportamentale indirizzato e confezionato a dovere.
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